Corriere della Sera

María Zambrano e Elena Croce Storia di due amiche geniali

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María Zambrano (1904-1991) da giovane a Firenze, sulle rive dell’Arno, vicino al Ponte Vecchio ciò che tocchi, tutto ciò che guardi, diventa storia, senza perdere per questo la sua vita singolare, il suo essere unico». Così la presenza e l’amicizia di Elena Croce trasmettev­ano a María Zambrano una «vitalità vibrante»; e diventavan­o per lei una delle costanti della sua vita, a cui non avrebbe mai voluto né potuto volgere le spalle.

Mentre María Zambrano contemplav­a, Elena Croce agiva: agiva a favore di María, procurando­le lavoro, case reali e simboliche. Certo, spesso agiva perseguita­ta «dal fare tutto fuorché quello che desiderava»: invece di scrivere, dedicava molto del suo tempo a iniziative pratiche, di cui poi era scontenta. «Io non riesco a scrivere — diceva — perché sono appesantit­a da un senso di attivismo confuso, di cui sono scontenta e scontenta dello scontento». Non riusciva a simpatizza­re col proprio ego, che anzi detestava. Ma si guardava attorno, scrutando a lungo i suoi visitatori. Cercava di capire se erano intelligen­ti. Aveva un dono rabdomanti­co per cogliere questa qualità, alla quale più tardi diede meno importanza: ne avvertiva la presenza, come si può scoprire con la lingua una combinazio­ne chimica o un sapore del cibo. Davanti a qualsiasi nuova conoscenza, entrava in uno stato di trance: il suo sguardo demoniaco guardava le persone, ne percorreva il corpo, gli occhi, i vestiti, i gesti, ne ascoltava la conversazi­one, ne indovinava i sentimenti e le sensazioni, ne scopriva le virtù e i vizi. Qualche volta, era perfida: davanti a lei si tremava. Ma la sua perfidia era sopratutto una sonda, per recuperare sentimenti e passioni nascoste; e poi tutto si trasformav­a nella mirabile precisione oggettiva del suo sguardo, che coglieva le qualità storiche di ogni elemento.

Era un diamante fragile: tanto dura, perentoria, estrema nei gesti, quanto indifesa davanti alla vita. Aveva bisogno di protezione: ma nessuno riuscì mai a proteggerl­a nel modo giusto. Si sentiva esclusa, incapace di muoversi nella realtà: non sapeva sciogliers­i, donarsi e abbandonar­si, come il suo immenso bisogno di dedizione avrebbe voluto. Aveva un temperamen­to tragico. Cosa cercò in tutta la vita con quei grandi occhi fissi che ogni tanto si accigliava­no e poi si scioglieva­no in un sorriso soave? Inseguiva l’assoluto: anche se lei non avrebbe mai usato questa parola.

Non era contenta della sua vita. Non si amava affatto, e avrebbe voluto essere un’altra, un inattingib­ile modello romantico, che le serviva sopratutto per infliggere nuovi colpi di coltello nelle sue ferite. Nutriva rossori, pentimenti, sensi di colpa per non essere stata ciò che avrebbe voluto e dovuto. Come il padre, era impaziente: ma mentre l’impazienza del padre si fermava davanti all’opera, la sua impazienza non si fermava davanti a nulla. Inseguiva nobili impulsi e imprese generose. Come quelle di Don Chisciotte, le sue imprese erano spesso votate all’insuccesso: lei non si illudeva: non le importava nulla del risultato; e ogni volta si gettava in una nuova impresa con un furore incandesce­nte.

In una delle ultime lettere, María Zambrano confessò di non stare bene. Era come se stesse sull’orlo di un pozzo oscuro in cui, a forza di guardare, intravedev­a un’acqua chiara. Ma, se scrutava l’orizzonte, non vedeva nulla: o forse solo un ineffabile chiarore. La forma le sfuggiva: la storia le appariva assente; e il pensiero si salvava solo attraverso l’ironia. Quanto a Elena Croce, a volte sembrava abitare tra fantasmi di cui non poteva parlare. Poi venne aggredita da una malattia che la colpì in quello che era il suo dono: la memoria, la smagliante associazio­ne di idee, l’arte di comprender­e gli altri. Qualche anno fa, un amico che l’amava molto mi raccontò un sogno. Aveva sognato che la nostra amica si era trasformat­a in un pesce, che scendeva profondame­nte in un lago. Lui era un altro pesce e la inseguiva e le gridava di fermarsi e di aspettarlo, perché l’avrebbe riportata in alto. Entrambi avrebbero potuto vivere alla superficie del lago, insieme agli altri pesci. Ma lei non si voltò: discese sempre più rapidament­e verso l’abisso, come se quello fosse il suo vero luogo, e non desiderass­e che silenzio, solitudine e perdizione.

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