Thiong’o: solo la lingua nativa può decolonizzare l’Africa
In piazza San Carlo «Torino, 2011», immagine di Massimo Siragusa presente alla mostra «Inside Out 1. I fotografi italiani», in corso fino al 21 giugno al Palazzo della Ragione di Milano ©Massimo Siragusa/Contrasto Italia debbano o no scrivere in inglese ma come loro, e gli africani in genere, sono istruiti in Africa. Se una nigeriana Igbo come me viene istruita in inglese e scoraggiata a parlare l’Igbo, allora, forse, scrivere in inglese non è una scelta» ha argomentato l’autrice di «Metà di un sole giallo», spostando il focus dal piano linguistico a quello formativo, ambito caro a Ngugi e tema ricorrente nei suoi romanzi, da «Le Nuvole» a «Sogni di guerra». Su questo terreno i due big della letteratura africana s’incontrano. «Adichie ha ragione a dire che ci sono tanti giovani in Africa che vengono formati come europei sul piano linguistico, come se le lingue europee fossero le loro madrelingua — spiega lo scrittore keniano dalla sua casa di Irvine, in Canada —. Ha anche ragione a focalizzare la sua attenzione sulle politiche dell’istruzione in Africa, che rendono le lingue europee le lingue del potere. Mi piacerebbe che queste politiche cambiassero. Ma è soltanto l’Africa e gli africani che possono fare qualcosa per le loro lingue».
Una sfida raccolta da un altro influente intellettuale africano, il connazionale Binyavanga Wainaina: « Dopo aver letto questo saggio, la mia visione del Kenya è cambiata per sempre» ha detto. E sicuramente anche da quattro dei nove figli di Ngugi, quelli che hanno scelto di seguire le sue orme.
La danza Festa per la cerimonia della circoncisione in un villaggio keniano
Tra i suoi romanzi tradotti in 30 lingue «Un chicco di grano», «Le nuvole» e «Sogni di guerra». Sarà alla Fiera del Libro di Torino il 17 maggio, alle 18
Nella capitale keniota Ngugi ha insegnato all’università per dieci anni prima di finire in carcere, nel 1977, senza processo per un’opera teatrale di denuncia sociale. Una pièce messa in scena in kikuyu dai contadini di un villaggio, iniziativa letta come un’istigazione alla rivolta. In cella lo scrittore iniziò a riflettere sulla carica dirompente della lingua nativa: «Perché non mi hanno arrestato prima, quando scrivevo in inglese? mi chiesi. E presi la mia decisione» racconta. In carcere ha vergato su rotoli di carta igienica il suo primo romanzo in kikuyu. Nel 1982, la decisione dell’esilio negli Stati Uniti, anche per via delle minacce ricevute dalla sua famiglia. Uscito di scena il presidente Moi, nel 2004 Ngugi rimpatriò. Ma il rientro si rivelò tragico: lui assalito e bruciato in volto, la moglie stuprata sotto i suoi occhi.
Oggi, forse, ci sarebbero le condizioni per tornare. «Lo spazio democratico per esprimersi è migliorato, spero di ritirarmi in pensione in Kenya. Mi mancano il suo paesaggio, la gente, i mercati...».
Il Kenya è oggi, purtroppo, anche la strage di Garissa e il terrore seminato dagli Shebab, un orrore che Ngugi rilegge alla luce delle sue convinzioni no global: «Condanno tutti gli atti che cercano di dividere le persone sulla base della religione o delle origini etniche. Ma i fondamentalismi religiosi e il fondamentalismo capitalistico stanno dalla stessa parte: contro le persone».