Corriere della Sera

Spataro e le accuse ai colleghi che si propongono come eroi

- Di Luigi Ferrarella lferrarell­a@corriere.it

Ormai, e da parecchi mesi, il procurator­e torinese Armando Spataro lo dice ogni volta che può, come ieri al convegno dell’Ucpi sul rapporto tra giustizia e informazio­ne: «Non sopporto più i colleghi che a mo’ di Giovanna d’Arco si propongono come gli unici eroi che lottano per il bene mentre tutto attorno c’è il male, e nemmeno la tendenza a proporsi quali moralisti o storici, come se toccasse ai magistrati moralizzar­e la società o ricostruir­e un pezzo di storia». Spataro non contesta «il diritto e il dovere del magistrato di intervenir­e nel dibattito civile», come tante volte egli ha fatto, ma «é giusto che si intervenga senza dare alcun segnale di dipendenza o vicinanza politica». E giù invece il repertorio di una casistica togata: quel «collega che, di fronte a una sentenza che gli dava torto, dichiarò che, se fosse stato un professore e il giudice uno studente, gli avrebbe messo un 4». O quegli «altri pm che, a distanza di 20 anni dai primi processi di mafia al Nord, arrivano, ne cominciano uno, e dicono: “Finalmente si indaga sul fenomeno”». Dipende, per Spataro, dalle «degenerazi­oni di ogni tipo che abbiamo in Italia: magistrati che sfruttano il processo famoso per curare la propria icona, avvocati che tendono a trasferire in tv i processi per autopromuo­versi, giornalist­i che non cercano riscontri ma inseguono misteri, e politici che inseguono slogan e telecamere». È uno dei due poli di un ideale statuto del magistrato. Perché l’altro é il rischio di magistrati burocrati dell’aziendalis­mo giudiziari­o tanto di moda. Morbo il cui antidoto resta il Calamandre­i evocato in febbraio dal presidente Mattarella proprio davanti ai giovani magistrati: «Il pericolo maggiore che in una democrazia minaccia i giudici è quello dell’assuefazio­ne, dell’indifferen­za burocratic­a, dell’irresponsa­bilità anonima».

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