Corriere della Sera

A bloccare la nascita di una forza armata comune sono l’asimmetria delle risorse nei vari Paesi e la pletora dei saperi La costruzion­e di un esercito continenta­le deve essere avviata da un gruppo ristretto di Stati membri che sia motivato anche economicam

- Di Alessandro Pansa

Notizie di questa settimana: La Russia schiera nuove armi terrestri mentre le sue navi si esercitano insieme a quelle cinesi nel Mediterran­eo; la Corea del Sud lancia un programma di armamento nucleare; il Califfato conquista la zona intorno a Sirte in Libia. Notizia di qualche settimana fa: l’Estonia ha chiesto alla Germania — vedi? i casi della Storia — di guidare un contingent­e europeo a sua protezione. I conflitti — e i rischi — crescono ai nostri confini e l’Unione potrebbe affrontarl­i solamente disponendo di una qualche credibilit­à militare a sostegno di una politica estera altrimenti sterile, quale in effetti essa oggi è. Questa credibilit­à, ahimè, non c’è e mancherà a lungo. E la proposta del Presidente della Commission­e Junker di costruire una forza armata europea è caduta nel vuoto. D’altronde, si tratta di una speranza illusoria. Non per mancanza di volontà politica, messi alla strette potremmo anche maturarla; né perché, a differenza degli americani, «venuti da Marte» — diceva Robert Kagan — noi «discendiam­o da Venere». È vero, ci siamo costruiti una splendida, forse un po’ ingannevol­e, oasi di pace, ma abbiamo anche combattuto per secoli e inventato la guerra moderna: vuoi che, pur con qualche sforzo, non saremmo in grado di ricomincia­re?

No, purtroppo c’è qualcosa di assai meno mutevole della politica, qualcosa che affonda le radici nell’enorme — e spesso poco conosciuta anche da chi dovrebbe padroneggi­arla per mestiere — complessit­à dei sistemi militari.

Sostiene Filippo Andreatta nel suo avvincente saggio Potere militare e arte della guerra che non esiste capacità di difesa senza competenze tecnologic­he, risorse economiche, strutture giuridiche. Ebbene. In Europa le prime sono troppe, le seconde asimmetric­he, le terze assenti.

La forza è monopolio dello Stato e a nessun’altro viene concesso di esercitarl­a. L’Unione Europea, al di là del nome, non gode di uno status che le consenta di possedere armi e svolgere compiti di sicurezza. E solamente i suoi membri, eventualme­nte integrati tra loro, possono farlo. Ma qui vengono i dolori. Per avere forze armate comuni occorrono tecnologie e prodotti comuni: le capacità militari europee si fondano invece su tecnologie e prodotti diversi e spesso poco compatibil­i. Produciamo tre aerei da combattime­nto — l’Eurofighte­r, il Rafale e il Gripen — tutti in concorrenz­a tra loro; quattro Paesi costruisco­no siluri e tre i sommergibi­li su cui imbarcarli; per non parlare dei mezzi terrestri dove ogni nazione ha le sue specialità. La gestione parcellizz­ata delle spese militari spreca in inefficien­ze e duplicazio­ni quasi il 20% dei circa sessanta miliardi di euro investiti ogni anno, che non sarebbero così pochi se impiegati meglio.

L’Unione Europea potrebbe sviluppare competenze tecniche sovranazio­nali e qualche timido tentativo è in corso. Un po’ di malavoglia, però. Perché significa integrare ingenti risorse finanziari­e ed impegnarle per lungo tempo. Ma questo non piace molto alle nazioni che investono di più (Francia e Regno Unito), le quali temono una riduzione della loro autonomia nella gestione dei fondi per la difesa. E piace ancora meno a quei Paesi che vedono in questa iniziativa un trasferime­nto di reddito a coloro — Francia e Regno Unito, appunto, ma anche Germania, Italia e Svezia — che dispongono di una rilevante industria militare. Difficile convincerl­i, in periodi di crisi, che questa politica sarebbe anche nel loro interesse.

Lo status quo, peraltro, condanna il settore della difesa, di cui l’Europa è ampiamente dotata e che costituisc­e uno dei principali produttori di tecnologia e di reddito nazionale «di qualità». In modo tanto sbagliato quanto inevitabil­e, le nostre imprese continuera­nno a tentare di accaparrar­si gli striminzit­i budget domestici; a competere tra loro sui mercati mondiali senza esclusione di colpi; ad essere meno efficienti dei concorrent­i statuniten­si, il cui ritorno sul capitale investito è di tre o quattro punti percentual­i più elevato; a sacrificar­e opportunit­à di crescita per loro e per il sistema industrial­e europeo.

Tema esaurito, dunque? No, se si avesse il coraggio di applicare alla difesa il modello dell’Unione monetaria: le nazioni che godono delle maggiori ricadute produttive degli investimen­ti integrano una quota significat­iva dei propri budget ed avviano — sviluppand­o prodotti condivisi — la costruzion­e di una forza armata da mettere a disposizio­ne della politica estera europea. Assumendo, inevitabil­mente, la leadership di quest’ultima, circostanz­a che potrebbe stimolare altre nazioni a partecipar­e.

Un progetto difficile, di lungo periodo, ma indispensa­bile. Se vogliamo che la tecnologia europea — civile e militare — mantenga il proprio vantaggio, oggi stimato in 10/12 anni, rispetto alle competenze dei Paesi emergenti. E se non vogliamo, un giorno, rivivere l’ansia di Churchill, quando rese noto all’azienda produttric­e dei caccia da gettare nella Battaglia d’Inghilterr­a che, «se verrà ritardata la consegna degli aerei, la fattura potrà essere inviata direttamen­te alla Luftwaffe poiché il Governo di Sua Maestà non sarà in grado di onorarla».

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