Corriere della Sera

La società

- Mgerevini@corriere.it

L’azienda piemontese Inalpi della famiglia Invernizzi si porta dietro dal 2001 il credito originario con Tripoli: tre milioni di euro poi lievitati a cinque. La partita di burro consegnata anni fa nei porti di Tripoli non è mai stata pagata. E ora Inalpi è pronta a rivalersi sui dividendi che i libici incasseran­no da Unicredit nel frattempo è sparita: liquidata e chiusa. E allora? La palla torna ai legali. Lo scorso luglio riescono a ottenere dal tribunale di Cuneo (con l’ambasciata libica assente) una sentenza che in sostanza dice: la Gdp era un’emanazione dello Stato libico il quale perciò è tenuto al risarcimen­to dei danni. E così tra gennaio e maggio 2015, pur con la loro modesta pretesa da 5 milioni, gli Invernizzi puntano dritti verso Piazza Affari (Unicredit, Finmeccani­ca, Juventus, Eni) e i conti bancari (Unicredit, Intesa, Bnp Paribas, Credit Agricole, Banca Ubae, Abc Internatio­nal Bank)) perché è il patrimonio libico in Italia che va «attaccato». Unicredit per prima perché è la partecipaz­ione più rilevante (oltre il 4%) e notoria, dichiarata ufficialme­nte alla Consob per il 2,9%, in capo a organi statali come la Central Bank of Libya e sue emanazioni e poi Unicredit distribuis­ce il dividendo. Pignorare le azioni è però un labirinto senza uscita perché di fatto, secondo gli avvocati, non si sa dove sono depositate. Ma il dividendo lo paga Unicredit e i libici ne incassano per il corrispett­ivo di alcune decine di milioni. Agli Invernizzi ne bastano cinque e proveranno, attraverso il tribunale, a costringer­e Unicredit a bloccare il dividendo dei libici e farsi pagare finalmente quel burro del 2001.

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