Corriere della Sera

«Io, medico, opero sotto assedio la gente di Kobane»

Alì è rientrato in Siria: i combattent­i urlano sotto i ferri, le donne no

- di Gian Antonio Stella

Il medico radiologo Alì Mohamed Arif, curdo, sostiene di non saper sparare. «Mai un colpo in vita mia». L’assedio di Kobane, tuttavia, l’ha vissuto tutto. Da dentro: «Mesi di bombardame­nti, di scontri strada per strada, di sparatorie casa per casa». Non vede l’ora di ricacciars­i nell’inferno. Non c’è più quasi niente della sua città. Macerie, solo macerie. «Opero sotto le bombe per salvare la mia gente».

«U n giorno è arrivata una ragazzina. Aveva sedici anni, forse meno. Portava il papà, ferito. “Pensaci tu”, mi ha detto. E preso il fucile del padre è filata subito via per combattere al posto suo. “Ma sai sparare?”, le ho chiesto. “Imparerò”».

Anche Alì Mohamed Arif dice di non sapere sparare. «Mai un colpo in vita mia». L’assedio di Kobane, però, l’ha vissuto tutto. Da dentro: « Mesi di bombardame­nti, di scontri strada per strada, di sparatorie casa per casa». Non vede l’ora, anzi, di tornare a cacciarsi nell’inferno: «Torno giù domani». Non c’è più quasi niente, della sua città. Macerie. Solo macerie.

E’ venuto a Roma, ospite di Soran Ahmad e dell’Istituto Internazio­nale di Cultura Curda, per questo. Per dire agli italiani che, come scriveva l’altra mattina Lorenzo Cremonesi citando Amnesty Internatio­nal, la Siria è ancora «un girone infernale» di «massacri, torture, violenze» e «non parlarne non significa che l’orrore non avvenga. Tutt’altro».

Alì Mohamed Arif è un medico radiologo. Curdo, figlio di un piccolo proprietar­io terriero di un villaggio nei dintorni di Kobane, 35 anni, l’aria mite di un timido, si è laureato in Algeria («Da noi c’era il numero chiuso ma io volevo a tutti i costi studiare medicina») e quando la situazione siriana è precipitat­a lavorava in un ospedale di Aleppo: «Ho resistito fino a dicembre 2012, poi mi sono trasferito in Tunisia. Dove mio fratello, che ha una società edile e ha lavorato anche in Arabia Saudita, poteva darmi una mano».

Un anno di lontananza angosciata. Un sussulto ad ogni telegiorna­le. Ogni giornale radio. Ogni telefonata che poteva annunciare la morte di altri amici. Altri parenti. «Finché nel giugno del 2014, vedendo la mia città minacciata dall’offensiva dell’Isis, decisi: dovevo tornare. Mia madre e le mie sorelle erano in salvo, in Turchia. Dovevo tornare. Fu determinan­te la telefonata di un amico: gli unici due medici radiologi se n’erano andati. E così, uno dopo l’altro, tutti gli altri dottori».

Aveva il permesso per lavorare in Francia. Tranquillo. Sereno. Scelse Kobane: «Rientrai attraverso la Turchia. La città era irriconosc­ibile. Evacuata. Rovine. Boati. Raffiche di Kalashniko­v. Cento, duecento botti di mortaio al giorno. C’erano tre ospedali, ma sotto i colpi dei jihadisti erano ormai semidistru­tti. In una città che prima aveva trecentomi­la abitanti ci ritrovammo in quattro dottori. Quattro. Un chirurgo, un internista, uno specializz­ato in medicina generale e io. Ognuno faceva tutto. Ogni giorno ci spostavamo da un ospedale all’altro (dovrei dire da ciò che restava di questo o quell’ospedale) a seconda di dove erano meno duri i cannoneggi­amenti».

Dormiva lì, negli ospedali: «Mangiavamo formaggio e marmellata. Andando a saccheggia­re (non avevamo scelta, purtroppo...) le botteghe di chi se n’era andato. Siamo stati settimane a spartirci scatolette. Senza niente di caldo. Anche le medicine le andavamo a prendere nelle farmacie abbandonat­e. I più duri furono i ventitré giorni dal 15 settembre ai primi di ottobre del 2014. Tre settimane da incubo. Con i jihadisti che, dopo aver occupato pezzi della città e aver issato le bandiere nere, parevano sul punto di sfondare e di travolgerc­i tutti».

Non avrebbe avuto scampo, il dottor Arif. Racconta che sì, certo, è lui stesso musulmano. «Ma quelli lì sono un’altra cosa». Apre il colletto della camicia e mostra una collanina d’oro: «E’ di mia madre». Per questo la porta, spiega. Una piccola, rischiosa sfida ai tagliagole dell’Islam radicale: «E’ inaccettab­ile, per loro, che un uomo, un maschio, porti qualcosa di poco virile come una collanina. Certi giorni erano così vicini che potevi sentirli gridare fra di loro. In tedesco, francese, inglese... Ci tenevano a farcelo sapere. Figli capriccios­i e violenti della società occidental­e». Italiani? «Non so. Può darsi. Ma non so. C’erano anche sbandati finiti a fare la jihad per soldi. Paga, l’Isis. Molto. Il capo dicevano fosse Abu Omar Chichani, un ceceno...». Ospedali improvvisa­ti In un solo giorno mi hanno portato 63 feriti e 23 morti Mostra le foto conservate nel cellulare. Macerie. E poi macerie. E poi ancora macerie...

E lui, specialist­a in radiologia, costretto in sale operatorie improvvisa­te, stanze rimaste miracolosa­mente in piedi tra le rovine, a intervenir­e chirurgica­mente su donne, bambini, anziani feriti sotto i bombardame­nti: «In un giorno solo, lì dove ero io, hanno portato sessantatr­é feriti e ventitré morti. Era una lotta impari...».

Nessun rispetto per gli ospedali? «Al contrario. Nei giorni più duri, prima che apparisser­o finalmente i nostri peshmerga, quando ci sentivamo ormai perduti nonostante gli occhi di tutto il mondo fossero fissi su Kobane, loro concentrav­ano i bombardame­nti proprio sugli ospedali. Non gli bastava uccidere. Volevano abbattere il nostro morale. Terrorizza­rci».

Le più forti, ricorda, erano le donne: «Ne ho visti tanti, di combattent­i, urlare sotto i ferri. Le nostre donne no. Anche il dolore più lacerante non le piega. Hanno una capacità di sopportazi­one stoica. Da brividi». Le strade di Roma sono piene di sole. Le poltroncin­e della saletta comode. Il caffè buono. Ma lui con la testa è lì. «Non è finita. Questo dovrebbero capire gli europei: a Kobane, in Siria, in Iraq, non è finita. E non serve a niente girarsi dall’altra parte...».

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 ??  ?? Tra le macerie Alì Mohamed Arif, 35 anni, medico curdo di Kobane. Scappato nel 2012 in Algeria, è tornato a Kobane nel 2014
Tra le macerie Alì Mohamed Arif, 35 anni, medico curdo di Kobane. Scappato nel 2012 in Algeria, è tornato a Kobane nel 2014

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