Corriere della Sera

La voce tremante di Michelle: so cos’è il razzismo

- Di Maria Laura Rodotà

Asentire l’audio, non sembra neanche lei. Non ha il solito timbro da femmina alfa educata/impaziente. In certi momenti sembra le tremi la voce; in altri viene da immaginare la fatica — e il senso di liberazion­e — con cui Michelle Obama, dopo anni di buona condotta, ha parlato di razzismo; in generale e nei suoi confronti. Di un pregiudizi­o collettivo verso questa donna altissima bravissima nerissima (nata povera, laureata a Princeton e in legge a Harvard, avvocato e manager) quando si cominciò a pensare a lei, nel 2008, come alla prima first lady afroameric­ana. «Sono stata oggetto di dubbi e malignità, provocate da paure e percezioni distorte», ha detto parlando alla Tuskegee University in Alabama. «Ero troppo irruenta? Ero castrante? O ero troppo morbida?». O anche, troppo potenziale terrorista. Come da copertina del New Yorker, disegnata con capelli afro e mitra. O malavitosa: definita «complice di colore» del marito su Fox News. Ha poi concluso che è andata bene, abbastanza. Grazie al lavoro, «rimanendo me stessa...». Ora però affronta, come suo marito dopo uccisioni e rivolte da Ferguson a Baltimora, la questione razziale. Centrale per ambedue gli Obama. Lui, mezzo africano mezzo bianco, ci ha scritto su due libri. Lei, arrivata da un ghetto di Chicago, nella tesi a Princeton raccontò la sua esperienza di studentess­a emarginata. Racconterà di nuovo, ora, si pensa (digitando «Michelle Obama Tuskegee» si leggono vari insulti razzisti, e accuse di essere «divisiva»; denunciare discrimina­zioni lo è, in effetti).

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