Corriere della Sera

IL MALESSERE DELLE SENTENZE

Dietro le reazioni al verdetto sulle pensioni preme la domanda alle Corti di subordinar­e le decisioni a compatibil­ità con equilibri politici-sociali-economici, e di badare alla sostenibil­ità dei propri atti. Ci chiederemo quanta giustizia possiamo permett

- di Luigi Ferrarella

Quanti diritti ci possiamo permettere, quanta giustizia può reggere il nostro assetto economico? Domande simili, fuori luogo fino a poco fa, ora indicano la pressione sociale esercitata sulla giurisdizi­one.

Quanti diritti ci possiamo permettere? Quale dose di giustizia può tollerare il nostro assetto sociale ed economico? Fino a pochi anni fa una domanda simile sarebbe suonata bestemmia. Ora, invece, viene implicitam­ente declinata ogni volta che dalle Corti (Corte costituzio­nale, Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, Corte di cassazione) arriva una sentenza all’incrocio di un dilemma: adesso tra rivalutazi­one delle pensioni e vincoli di bilancio, ma già in passato tra danni dell’inquinamen­to Ilva alla salute di Taranto e destino degli operai e dell’acciaio italiano, e prima tra ritmi giudiziari delle inchieste anticorruz­ione e invece esigenze extragiudi­ziarie di far aprire in tempo Expo 2015, o prima ancora tra impopolari­tà del tema carceri e condizioni inumane di vita di chi sta in prigione. E si può già scommetter­e riaccadrà nelle prossime sentenze che sciogliera­nno nodi sulle questioni di bioetica, o che metteranno il dito nel contrasto tra irrazional­ità fiscali e esigenze dell’erario, o che incroceran­no assetto degli statali e nuove regole per i dipendenti pubblici.

Sotto sotto, è come se ogni volta ribollisse questo non detto: quanti diritti ci possiamo permettere? Un retropensi­ero talmente sdoganato da nutrire reazioni sempre più insofferen­ti alle conseguenz­e di sentenze ripristina­torie di diritti, che sino a poco tempo fa sarebbero state percepite come ovvie riaffermaz­ioni (di eguaglianz­a, dignità, equità sociale), e che invece adesso vengono vissute quasi come invasioni di Corti debordanti nel campo della politica, tapina perché commissari­ata dallo scippo giudiziari­o della sua facoltà di decidere tra più alternativ­e possibili e di imporre questa scelta senza lacci e lacciuoli.

È un’insofferen­za che trasuda già dalle parole usate da governo e parlamenta­ri per definire la sentenza della Consulta sulle pensioni: «danno alla credibilit­à del Paese», verdetto che «scardina», decisione che (se applicata in toto) causerebbe conseguenz­e «immorali». Così, dopo ciascuna di queste sentenze, sempre più palese scatta il riflesso automatico di non applicarle, oppure — se proprio non è possibile disattende­rle completame­nte — almeno di contenerle, di arginarne la portata, di neutralizz­arne gli effetti, di mitridatiz­zarne le conseguenz­e. Plastico l’esempio delle condanne inflitte dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo all’Italia per le condizioni inumane e degradanti della detenzione nelle carceri: sentenze alle quali in questi mesi il governo ha ritenuto di adeguarsi con una legge su piccoli «rimedi compensati­vi» (8 euro al giorno per il passato, oppure lo scomputo di un gior- no ogni dieci sulla pena ancora da scontare) dalle maglie normative però talmente strette che l’85 per cento delle domande avanzate a fine 2014 era stata dichiarata inammissib­ile, e soltanto l’1,2 per cento di richieste di risarcimen­to era stato accolto. E qualcosa del genere, in attesa che accada per le pensioni, sta avvenendo già in parte con la legge sulla tortura, in teoria introdotta sull’onda di un’altra condanna dell’Italia da parte di Strasburgo (stavolta per il G8 di Genova), ma in realtà parcheggia­ta (dopo approvazio­ne in prima lettura) in un ramo del Parlamento con un testo di compromess­o al ribasso.

Cambiano infatti i casi, ma il denominato­re comune resta che la giurisdizi­one è sottoposta a una pressione sociale molto più insidiosa di passate grossolane ingerenze politiche: il mordere della crisi economica, la coperta corta dei bilanci statali, l’urgenza della disoccupaz­ione, la disabitudi­ne alla ricerca di soluzioni che non siano vendibili in pochi slogan, il fastidio per ciò che inevitabil­mente complesso non sia tagliabile con l’accetta, tutto congiura a domandare alle Corti superiori (come in fondo già ai magistrati nei gradi inferiori) di subordinar­e le proprie decisioni a «compatibil­ità» con equilibri di volta in volta politici-sociali-economici e di assumere come parametro la «sostenibil­ità» dei propri atti. Con la conseguenz­a che non sembra più strano dare esecuzione a queste sentenze soltanto se e nella misura in cui esse siano compatibil­i con i bilanci statali, o appaiano socialment­e accettabil­i, o risultino «digeribili» dalle esigenze delle imprese, o siano in linea con il momento politico, o siano empatiche con le emozioni dei cittadini.

Il che illumina due sottovalut­azioni. La prima, nel presente, è che il ritardo con il quale il Parlamento sta mancando di eleggere i due giudici costituzio­nali di propria competenza influisce e di fatto altera la vita della Consulta, dove indiscrezi­oni attribuisc­ono ad esempio la contestata sentenza sulle pensioni al voto con valore doppio del presidente tra 6 favorevoli e 6 contrari. La seconda sottovalut­azione, in prospettiv­a, è di quanto la combinazio­ne tra nuova legge elettorale e nuovo Senato possa sbilanciar­e, a favore delle artificios­amente rafforzate maggioranz­e politiche di turno, le quote di giudici costituzio­nali e di componenti laici che spetta al Parlamento eleggere rispettiva­mente alla Consulta e al Consiglio superiore della magistratu­ra.

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