Corriere della Sera

Il buon senso versato nei calici dell’Expo

- L. F.

Ultime dall’America salutista: i popcorn al cinema si possono sostituire con un surrogato alla soia, oppure cospargere di un liquido alla frutta per attenuare i danni del burro (era due giorni fa in prima pagina sul Wall Street Journal). L’ossessione di disintossi­care il mondo sta interessan­do anche la Francia, dove si pensa di estendere la legge Évin del 1991 (vieta la pubblicità nei cinema e in tv di prodotti alcolici) anche a Internet e ai social network, associando (informa il sito dell’Associazio­ne italiana sommelier) «il vino al tabacco con la formula: l’alcol è dannoso per la salute». Ben diversi sono gli inviti alla moderazion­e e al consumo consapevol­e, linea di pensiero condivisa da imprendito­ri come quelli dell’Unione italiana vini, schierati con la polizia in una campagna sul bere responsabi­le. L’idea, spiega il presidente dell’Uiv, Domenico Zonin, è far capire che dentro a un bicchiere di vino c’è la nostra cultura e la storia dei vignaioli, un approccio opposto a quello dello sballo. È lo stesso messaggio che si ritrova visitando il Padiglione del Vino all’Expo. Voluto dal ministero dell’Agricoltur­a e allestito da VeronaFier­e (che da mezzo secolo mette in scena Vinitaly), non concede nulla agli aspetti folk del vino: il caos delle kermesse vinicole lascia il posto ad una zona didattica con richiami all’arte sui 2.500 anni di questo prodotto e a una zona di degustazio­ne algida e candida. Riflettori sulla ricchezza enologica italiana, nelle zone di degustazio­ne divise per regione (il Friuli Venezia Giulia è tra le prime), in cui le bottiglie sono racchiuse in teche come opere in mostra. È anche questo un modo per togliere argomenti a quelle che, mercoledì scorso, Il Foglio ha chiamato le velleità dei fascio-salutisti, che partono dalla giusta condanna sugli abusi di alcol e finiscono con la Stato che diventa etico o educatore.

Per Luigi Veronelli, i suoi vini erano «il canto del Collio verso il cielo». Il giornalist­a che per primo intuì la grandezza dei bianchi di questa terra («i migliori del mondo», scrisse), dichiarò pubblicame­nte la sua passione per Marco Felluga, con un articolo sul Corriere della Sera, il 29 ottobre del 2000: «Lo amo quale contadino (massimo tra gli elogi) ben più che quale presidente di un Consorzio».

Tra i pionieri del vino del Nordest, Marco Felluga, è stato probabilme­nte il più visionario. Capì il valore della miniera che aveva sotto i piedi quando era poco più di un ragazzo. Il futuro suocero, lo chef Bepi Pisani, lo considerav­a un «lava fiaschi», perché allora, negli anni Cinquanta, il vino del Friuli era soprattutt­o vino sfuso, venduto nelle damigiane.

Ora Marco Felluga ha 88 anni, è un appassiona­to di jazz con una collezione di dischi messa insieme dall’arrivo delle truppe americane in Italia, anche incisioni d’epoca, introvabil­i. Alle spalle ha più di 60 anni trascorsi a far capire al mondo che dall’alchimia di terra e cielo del suo Friuli i grandi vitigni internazio­nali bianchi, come il Sauvignon, e quelli autoctoni, possono generare vini imbattibil­i per qualità e durata.

La famiglia viene dall’Istria, all’epoca italiana. Trasportav­a il vino con le barche verso Grado. Nel 1956 Marco si divide dal fratello Livio (il vignaiolo

Tenacia Con decenni di lavoro ha fatto capire che la sua terra dà vita a «nettari» imbattibil­i

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