di Franco Venturini
Negli ultimi ventisei anni l’Afghanistan è cambiato, in meglio. L’attacco dei talebani che ha provocato anche la morte di un italiano, spinge a fare chiarezza per arrivare a una via d’uscita dalla guerra, per il momento ancora possibile
La più antica delle crisi regionali che scuotono il mondo pare a volte sparire dal nostro affollato orizzonte di guerre. Ma nella leggendaria «tomba degli imperi» la tregua della disattenzione non è mai molto lunga.In Afghanistan, infatti, tra militari e civili, negli ultimi 11 anni sono morti 55 italiani e 650 sono rimasti feriti. Ieri a Kabul è stata purtroppo la volta del consulente aziendale Alessandro Abati e della sua promessa sposa di origine kazaka, ospiti di un residence che veniva considerato sicuro e che proprio per questo, per dimostrare le proprie capacità operative, i talebani hanno preso d’assalto uccidendo quattordici civili di varie nazionalità.
I talebani sono abituati a fare così, a colpire gli stranieri «invasori» rifiutandosi di distinguere tra militari e civili. E non è forse soltanto una coincidenza il fatto che mercoledì la Nato abbia annunciato un piano che prevede di mantenere in Afghanistan «una piccola presenza militare» anche dopo la fine del 2016, scadenza che Barack Obama aveva invece indicato per il totale ritiro delle forze americane. Si tratterà allora di forze non americane? Oppure accadrà di nuovo quel che è da poco accaduto, con un impegno statunitense più consistente del previsto dopo il 31 dicembre 2014 e analoghi passi compiuti dall’Italia e da altri alleati (gli italiani in Afghanistan sono oggi un centinaio a Kabul e 700 a Herat)?
Bisognerà attendere per fare chiarezza, ma in compenso a Kabul e dintorni la confusione è ampiamente disponibile. Dal primo gennaio l’esercito afghano è responsabile unico delle operazioni militari contro i talebani, e infatti le sue perdite sono quasi raddoppiate. Ma i circa 10.000 americani rimasti in Afghanistan con un mandato che in teoria doveva tenerli lontano dai combattimenti non fanno mancare il loro appoggio aereo, soprattutto con i droni, e nemmeno si privano delle in- cursioni terrestri delle forze speciali. Perché? Perché l’esercito afghano non è pronto a fare da solo, perché non si può riconoscere una mezza sconfitta dopo quattordici anni di guerra (nel caso degli Usa), e anche perché si spera di avviare nel frattempo un negoziato con i talebani «recuperabili».
E qui la confusione diventa davvero notevole. I talebani hanno lanciato a fine aprile la loro consueta offensiva di primavera, ma a migliaia di chilometri di distanza, nel lussuoso resort qatarino di Al Khor, rappresentanti talebani si sono seduti attorno a un tavolo assieme agli inviati informali del presidente Ghani che agisce in pieno accordo con Washington. Un tentativo di rilancio, dopo gli incontri falliti del passato, con qualche segno incoraggiante: la presenza di donne tra i delegati, accettata dai talebani; e forse proprio per questo una intesa di massima sul valore dell’educazione scolastica per le femmine come per i maschi.
I talebani percorrono il doppio binario della guerra e del negoziato? Oppure sono spaccati al loro interno? Oppure ancora combattono sotto la crescente influenza degli infiltrati dell’Isis, che non vogliono rimanere esclusi da un territorio per loro promettente come l’Afghanistan? Nessuno può avere certezze e nessuno le ha, anche se Ashraf Ghani ha molto insistito sul ruolo avuto dall’Isis in occasione della strage di Jalalabad il 18 aprile (35 morti).
Ventisei anni fa l’impero sovietico si ritirò sconfitto dall’Afghanistan prima di crollare. In Afghanistan scoppiò la guerra civile, poi venne la dittatura dei talebani che imponeva il burqa alle donne, vietava la musica e proibiva la scuola alle bambine. Oggi l’Afghanistan è cambiato, si viene condannati a morte per aver linciato una donna ingiustamente accusata di aver bruciato il Corano, la scolarità è diffusa, il burqa resiste ma per scelta, i rapporti con il Pakistan sono migliorati in chiave anti talebana (almeno così sembra), e gli Usa non sono sull’orlo della disgregazione. Una via d’uscita dalla guerra è possibile ma nella generale incertezza non è ancora percorribile. Bisogna invece imboccarla con urgenza, se non si vuole che l’Afghanistan resti tragicamente fedele a se stesso.