Corriere della Sera

QUELLE DONAZIONI DA FARE PER IL MASSIMO BENE POSSIBILE

Alla scadenza delle dichiarazi­oni dei redditi, sorge il dilemma su come orientarsi nel fare beneficenz­a. Uno dei principi da seguire è aiutare i più poveri del mondo, verificand­o che i soldi non si perdano nella burocrazia

- Di Ricardo Franco Levi

Come ogni anno, l’approssima­rsi delle scadenze per le dichiarazi­oni dei redditi sta producendo una pioggia d’inviti a sostenere organizzaz­ioni, fondazioni, chiese e confession­i religiose, enti impegnati nei più svariati campi: aiuti al terzo mondo, adozioni a distanza, assistenza ai malati, ricerca scientific­a, sostegno delle arti, tutela dell’ambiente.

Come scegliere tra tante finalità e organizzaz­ioni?

Il filosofo americano Peter Singer, in un provocante libro appena pubblicato (The Most Good You Can Do), invita, come dice il titolo, a seguire il criterio del «massimo bene che puoi fare». Non limitarsi a fare del bene in prima persona e a donare agli altri quanto più possibile della propria ricchezza, ma, poi, perseguire l’obiettivo di un «altruismo efficace», assicurand­osi che le proprie donazioni producano il massimo risultato possibile.

Assistere un non vedente offrendogl­i un cane addestrato per la guida costa negli Stati Uniti 40 mila dollari. Con la medesima somma, nei Paesi più poveri, si potrebbero pagare operazioni che salverebbe­ro dalla cecità tra quattrocen­to e duemila persone.

Considerat­i i costi prevalenti nei Paesi avanzati, è chiaro che ogni euro o dollaro speso «rende» infinitame­nte di più se speso aiutando i più poveri del mondo.

In questa prospettiv­a, la scelta si dovrebbe, allora, restringer­e a quale campo d’intervento privilegia­re. Donando nel 1989 un miliardo di dollari, un terzo del suo patrimonio, Ted Turner, il fondatore della Cnn, ha dato il via a un programma che ha permesso di vaccinare da morbillo e rosolia 1,1 miliardi di bambini, contribuen­do a far crollare del 78 per cento, tra il 2000 e il 2012, le morti dai due morbi e salvando, con meno di 80 dollari per ciascuna, 13,8 milioni di vite.

Chi vuol saperne di più può leggere il meraviglio­so L’economia dei poveri di Esther Duflo, già premiata con la Clark Medal, il «Nobel» per gli economisti con meno di 40 anni. In Kenia, un letto a prova d’insetti che costa 14 dollari riduce del 30 per cento almeno la possibilit­à di infezione da malaria e permette quasi 90 dollari di maggior guadagno per ogni anno dell’intera vita lavorativa del bambino salvato dalla malattia.

Ma si possono adottare sino in fondo la logica e i suggerimen­ti di Singer? Se il criterio del «massimo bene possibile» inducesse a privilegia­re sempre e comunque gli interventi nei Paesi più poveri e quelli direttamen­te a favore delle persone, che ne sarebbe della solidariet­à a favore dei più deboli (malati, disabili, poveri, anziani) nei Paesi più ricchi? E della tutela dell’ambiente, del sostegno della ricerca scientific­a, delle arti e della cultura, campi tutti nei quali il ritorno degli investimen­ti è per loro natura ben difficilme­nte misurabile?

Difficile, insomma, tradurre esclusivam­ente in numeri questioni così cariche di valori etici, di emozioni, di passioni, di fede.

Un’indicazion­e di Singer appare, in ogni caso, da meditare ed è quella che attiene, una volta individuat­o il campo verso il quale si vuole dirigere la propria donazione, alla scelta dell’organizzaz­ione alla quale affi- darsi. Un primo suggerimen­to è quello di guardare a quanto pesino le spese dell’amministra­zione così da capire quanto delle somme donate arrivi davvero a destinazio­ne. Ma anche qui non tutto è così semplice. È più efficiente un’organizzaz­ione talmente snella da non avere personale sul campo o un’altra che, al contrario, sia radicata nel territorio per controllar­e l’efficacia degli interventi eseguiti? La risposta, ogni altra consideraz­ione a parte, può venire solo dalla trasparenz­a delle organizzaz­ioni.

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