Corriere della Sera

QUANDO GIOLITTI NON VOLEVA LA GUERRA I NEGOZIATI PRIMA DEL CONFLITTO

- Giuseppe Gaudiosi giusgiaco@libero.it

Il 26 aprile 1915, i vertici del potere regiogover­nativo impegnavan­o l’Italia all’entrata nella Grande guerra con il Patto di Londra, firmato senza prima informare il Parlamento e contro l’orientamen­to sia della maggioranz­a parlamenta­re, sia della popolazion­e. Dopo 100 anni, gli studiosi sono ancora spaccati in due: chi vede la decisione bellica come un atto politico antiparlam­entare e antidemocr­atico (se non addirittur­a anticostit­uzionale), e chi sostiene che il potere politico dell’epoca aveva il diritto di decidere la guerra, anche contro la volontà parlamenta­re e popolare. La Grande guerra finisce nel 1918; solo 4 anni dopo, in Italia il cammino verso la liberaldem­ocrazia si blocca per dirigersi verso la dittatura. Si possono retrodatar­e al 1915 i primi segnali antidemocr­atici dell’Italia? Infatti, nella odierna Costituzio­ne il potere di decidere la guerra appartiene al Parlamento. Caro Gaudiosi, el sistema costituzio­nale italiano, alla vigilia della Grande guerra, vi è una evidente contraddiz­ione. Secondo l’art. 5 dello Statuto Albertino, «al re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e

Ndi mare; dichiara la guerra, fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato lo permettano, ed unendovi le comunicazi­oni opportune. I trattati che importasse­ro un onere alle finanze, o variazione di territorio dello Stato, non avranno effetto se non dopo ottenuto l’assenso delle Camere». Vittorio Emanuele III, quindi, non violava lo Statuto negoziando segretamen­te a Londra con gli Alleati l’ingresso dell’Italia nel conflitto. Ma la guerra sarebbe stata impossibil­e se le Camere non avessero conferito al governo il potere di stanziare le somme necessarie al finanziame­nto delle operazioni militari.

Quando si oppose alle intenzioni del governo, Giolitti non sapeva ancora quale parte il re avesse avuto nel negoziato con gli Alleati. Poteva contare sulla maggioranz­a della Camera e sperò per qualche giorno di convincere Antonio Salandra e Sidney Sonnino (presidente del Consiglio e ministro degli Esteri) a continuare le trattative con Austria e Germania per un accordo che avrebbe permesso all’Italia di scambiare la propria neutralità contro qualche vantaggio territoria­le. Ma dovette rinunciare quando capì, dopo una conversazi­one con Vittorio Emanuele, che il re minacciava di abdicare e che la sconfessio­ne dell’operato del governo avrebbe aperto una crisi costituzio­nale. Quanto ai sentimenti popolari in quel momento, caro Gaudiosi, è probabile che la maggior parte degli italiani non volesse il conflitto. Ma accanto a questa maggioranz­a silenziosa esisteva una minoranza vociferant­e e bellicosa che riempiva le piazze e voleva la guerra.

Giolitti uscì di scena, impose a se stesso il silenzio e rimase a Cavour, salvo un breve viaggio a Roma dopo Caporetto, per tutta la durata della guerra. Ma non cambiò le sue idee e lo disse con chiarezza, dopo la fine del conflitto, in un discorso pronunciat­o a Dronero il 12 ottobre 1919. Dichiarò che la guerra aveva complicato i rapporti fra gli Stati europei, che occorreva rafforzare la Società delle Nazioni e, con particolar­e riferiment­o all’Italia, che era necessario assicurare «la diretta influenza del Paese sulla politica estera». Non era logico, sostenne, che i trattati internazio­nali venissero negoziati dietro le spalle della Camera, salvo chiederle, a cose fatte, il denaro necessario per le spese di un conflitto. A chi invocava lo Statuto Albertino, ricordò che nel 1848 «il segreto diplomatic­o era la norma per tutti gli Stati d’Europa» e le guerre si facevano con soldati di mestiere. Ancora più esplicitam­ente disse: «Se il Patto di Londra del 26 aprile 1915 fosse stato portato all’esame del Parlamento, o anche solamente di una commission­e parlamenta­re, ne sarebbero state rilevate le deficienze che ebbero poi conseguenz­e così disastrose».

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