Gioco di squadra Perché in ufficio vince la diversità
Le squadre di lavoro «miste» per sesso, età e provenienza sono più stimolanti e produttive. E ora esiste anche il gay index
Immaginiamo la scena. Grande ufficio. Open space. Dita che ticchettano sulla tastiera del computer. Schermi al plasma sintonizzati, pure nella stanza del capo: l’Italia è di turno ai mondiali. Calcio d’inizio. Il ticchettio si interrompe. Anche gli sguardi si sintonizzano. Il lavoro si blocca. È una scena d’ordinario quotidiano in azienda. O, meglio: lo era, prima che — nelle multinazionali in testa — i diversity manager prendessero il potere all’interno delle aziende. E che proprio un’azienda specializzata come Mckinsey scoprisse come far migliorare la qualità delle relazioni sul lavoro. Addirittura performance migliori del 57 per cento, grazie ad una forza lavoro plurale ed inclusiva.
Non sono semplici numeri. Non mere percentuali. È una realtà che dilaga. Diverso è bello. Diverso è meglio. Molto meglio. «Ad oggi sono state ben 636 aziende globali a propugnare l’inclusione: hanno sperimentato che facilita il benessere organizzativo e la qualità delle relazioni con il personale» dice Andrea Notarnicola , manager responsabile delle strategie formative di Parks (un’associazione che lavora per l’inclusione, mirata agli omosessuali) e che ha appena pubblicato un libro con la Franco Angeli con un titolo che dice tutto: «Global inclusion». È la Parks la prima associazione in Italia ad aver introdotto il gay index, ovvero uno strumento che misura il livello di inclusione delle persone omosessuali, inventato dallo studioso americano Richard Florida che in questa maniera è riuscito a dimostrare la forza assoluta dell’inclusività.
Non semplici numeri. È sempre uno studio della Mckinsey a rivelare quanto la diversità sia concretamente un valore aggiunto. Parliamo di diversità di genere, in questo caso. Su 366 aziende analizzate da Mckinsey è venuto fuori che in quelle dove ci sono board formati sostanzialmente da donne l’efficenza complessiva è migliore del 25 per cento. E non soltanto. È stato misurato anche che per ogni 10 per cento in più di presenza femminile in azienda si registra uno 0,3 per cento in più di redditività. Provare per credere. Omosessuali e stranieri, donne e anche persone alle soglie della pensione. «Nessuno deve sentirsi escluso», sostiene Lars Petersson, amministratore delegato di Ikea in Italia. E poi spiega: «Noi abbiamo cominciato con la lotta alle discriminazioni di genere, poi ci siamo occupati di quelle verso le persone omosessuali e adesso sarà la volta di etnia e di età. Da noi in Italia le donne in azienda sono il 58,6% e nelle posizioni manageriali superano il 41». Provare per capire. È stata la Georgetown University, insieme con la Thunderbird School of Global Management, a scoperchiare il vaso di Pandora. A mettere il dito nella piaga dell’omologazione in azienda. Sono stati intervistati ben tremila dipendenti di multinazionali. Il risultato? Ha del paradossale. Ben il 98 per cento, infatti, ha dichiarato di aver assistito a maltrattamenti, offese e pure atti di bullismo sul posto di lavoro. Nei confronti di chi? Donne, gay e stranieri, in testa, ovviamente ma anche nei confronti di persone che semplicemente esprimono la loro diversità di pensiero o che per fare i genitori hanno scelto orari flessibili. Non finisce qui. C’è anche un’altra ricerca, «Il prezzo dell’inciviltà» pubblicata da Harward Business Review che conferma puntuale la cifra della Georgetown University, che per ben quattordici anni ha analizzato i comportamenti di quattromila lavoratori aziendali: anche in questo caso è stato il 98 per cento a dichiarare di aver subito un comportamento incivile, connesso ad atteggiamenti di discriminazione.
Ecco perché le aziende più evolute non stanno andando avanti soltanto con politiche di inclusione globale, seppure in Italia esistono aziende insospettabili (come la Telecom o l’Ibm) che hanno creato ad hoc direzioni di diversity e lavorano attivamente su questi temi. Ci sono però, in più, ben cinquanta aziende globali che hanno fatto passi più determinanti. Decisivi. Aziende che non si sono spaventate di mettere in piedi gruppi di lavoro per attivare la massima flessibilità. Che, tradotto, vuol dire la possibilità di lavorare da casa, ma anche di poter avere orari di lavoro che si adattano, contemporaneamente, alle esigenze dell’azienda e del dipendente. Sembra l’uovo di Colombo, ma per troppo tempo è stato soltanto un tabù. Come un tabù è stato, a lungo, il congedo parentale per i padri, in alcuni casi (in)giusta causa di licenziamento.