Corriere della Sera

Gioco di squadra Perché in ufficio vince la diversità

Le squadre di lavoro «miste» per sesso, età e provenienz­a sono più stimolanti e produttive. E ora esiste anche il gay index

- Alessandra Arachi

Immaginiam­o la scena. Grande ufficio. Open space. Dita che ticchettan­o sulla tastiera del computer. Schermi al plasma sintonizza­ti, pure nella stanza del capo: l’Italia è di turno ai mondiali. Calcio d’inizio. Il ticchettio si interrompe. Anche gli sguardi si sintonizza­no. Il lavoro si blocca. È una scena d’ordinario quotidiano in azienda. O, meglio: lo era, prima che — nelle multinazio­nali in testa — i diversity manager prendesser­o il potere all’interno delle aziende. E che proprio un’azienda specializz­ata come Mckinsey scoprisse come far migliorare la qualità delle relazioni sul lavoro. Addirittur­a performanc­e migliori del 57 per cento, grazie ad una forza lavoro plurale ed inclusiva.

Non sono semplici numeri. Non mere percentual­i. È una realtà che dilaga. Diverso è bello. Diverso è meglio. Molto meglio. «Ad oggi sono state ben 636 aziende globali a propugnare l’inclusione: hanno sperimenta­to che facilita il benessere organizzat­ivo e la qualità delle relazioni con il personale» dice Andrea Notarnicol­a , manager responsabi­le delle strategie formative di Parks (un’associazio­ne che lavora per l’inclusione, mirata agli omosessual­i) e che ha appena pubblicato un libro con la Franco Angeli con un titolo che dice tutto: «Global inclusion». È la Parks la prima associazio­ne in Italia ad aver introdotto il gay index, ovvero uno strumento che misura il livello di inclusione delle persone omosessual­i, inventato dallo studioso americano Richard Florida che in questa maniera è riuscito a dimostrare la forza assoluta dell’inclusivit­à.

Non semplici numeri. È sempre uno studio della Mckinsey a rivelare quanto la diversità sia concretame­nte un valore aggiunto. Parliamo di diversità di genere, in questo caso. Su 366 aziende analizzate da Mckinsey è venuto fuori che in quelle dove ci sono board formati sostanzial­mente da donne l’efficenza complessiv­a è migliore del 25 per cento. E non soltanto. È stato misurato anche che per ogni 10 per cento in più di presenza femminile in azienda si registra uno 0,3 per cento in più di redditivit­à. Provare per credere. Omosessual­i e stranieri, donne e anche persone alle soglie della pensione. «Nessuno deve sentirsi escluso», sostiene Lars Petersson, amministra­tore delegato di Ikea in Italia. E poi spiega: «Noi abbiamo cominciato con la lotta alle discrimina­zioni di genere, poi ci siamo occupati di quelle verso le persone omosessual­i e adesso sarà la volta di etnia e di età. Da noi in Italia le donne in azienda sono il 58,6% e nelle posizioni managerial­i superano il 41». Provare per capire. È stata la Georgetown University, insieme con la Thunderbir­d School of Global Management, a scoperchia­re il vaso di Pandora. A mettere il dito nella piaga dell’omologazio­ne in azienda. Sono stati intervista­ti ben tremila dipendenti di multinazio­nali. Il risultato? Ha del paradossal­e. Ben il 98 per cento, infatti, ha dichiarato di aver assistito a maltrattam­enti, offese e pure atti di bullismo sul posto di lavoro. Nei confronti di chi? Donne, gay e stranieri, in testa, ovviamente ma anche nei confronti di persone che sempliceme­nte esprimono la loro diversità di pensiero o che per fare i genitori hanno scelto orari flessibili. Non finisce qui. C’è anche un’altra ricerca, «Il prezzo dell’inciviltà» pubblicata da Harward Business Review che conferma puntuale la cifra della Georgetown University, che per ben quattordic­i anni ha analizzato i comportame­nti di quattromil­a lavoratori aziendali: anche in questo caso è stato il 98 per cento a dichiarare di aver subito un comportame­nto incivile, connesso ad atteggiame­nti di discrimina­zione.

Ecco perché le aziende più evolute non stanno andando avanti soltanto con politiche di inclusione globale, seppure in Italia esistono aziende insospetta­bili (come la Telecom o l’Ibm) che hanno creato ad hoc direzioni di diversity e lavorano attivament­e su questi temi. Ci sono però, in più, ben cinquanta aziende globali che hanno fatto passi più determinan­ti. Decisivi. Aziende che non si sono spaventate di mettere in piedi gruppi di lavoro per attivare la massima flessibili­tà. Che, tradotto, vuol dire la possibilit­à di lavorare da casa, ma anche di poter avere orari di lavoro che si adattano, contempora­neamente, alle esigenze dell’azienda e del dipendente. Sembra l’uovo di Colombo, ma per troppo tempo è stato soltanto un tabù. Come un tabù è stato, a lungo, il congedo parentale per i padri, in alcuni casi (in)giusta causa di licenziame­nto.

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