Corriere della Sera

La severità del Papa e il dissenso nascosto

I fedelissim­i, gli ostili, il dissenso nascosto Il rapporto tormentato tra il Papa e i vescovi

- di Massimo Franco

«C’è depression­e, la gente sta con le ali basse. Quando parla dei vescovi, questo Papa che pure mostra una grande misericord­ia verso tutti, sembra incline a usare il bastone». Rilette il giorno dopo, le parole pronunciat­e lunedì da Francesco all’apertura dei lavori della Conferenza episcopale italiana hanno lasciato tracce profonde; e fatto riaffiorar­e riflession­i amare. Sono state vissute come la conferma di una severità che da mesi viene avvertita con dolore e sorpresa: quasi fosse l’onda lunga di un Conclave che nel 2013 rivelò una maggioranz­a ostile a qualunque ipotesi di papato italiano e curiale. Il rischio è di accreditar­e l’idea di un Pontefice convinto che la Chiesa cattolica si salvi allargando il fossato con una nomenklatu­ra ecclesiast­ica sospettata di essere collusa con il potere.

I fronti Bergoglio avrebbe il 20 per cento di consensi e il 10 di oppositori, il resto sono attendisti

Per questo, dietro le frasi sincere sulla devozione e l’obbedienza al «Santo Padre», si avverte un disagio che tocca direttamen­te l’episcopato italiano, in affanno nel capire le coordinate culturali di Jorge Mario Bergoglio; e convinto che gli ultimi anni tormentati di Benedetto XVI, con gli scandali e le lotte intestine nella Roma papale, abbiano sedimentat­o un pregiudizi­o anti- italiano difficile da scalfire. Ma il malessere non riguarda solo la Cei e il Vaticano. Va oltre i confini dell’Italia, e attraversa altre nomenklatu­re ecclesiast­iche: come se Francesco, il pontefice della svolta epocale, faticasse a far breccia nei gradi medio-alti della Chiesa, a dispetto dei trionfi popolari.

Ci sono tre numeri che racchiudon­o le incognite del suo papato: 20, 70, 10. Sono le percentual­i con le quali viene fotografat­o il suo consenso nella Roma vaticana da parte degli uomini a lui più vicini. Il 20 per cento, secondo le loro analisi, è quello di chi si è convinto di doverlo appoggiare; il 70 comprende una sorta di maggioranz­a silenziosa e indifferen­te, che lo asseconda in attesa di un altro Pontefice; e il 10 per cento fotografa il drappello dei nemici del papato argentino, sebbene magari non dichiarati. Sono cifre che, numero più numero meno, rimbalzano a Casa Santa Marta, dove abita Francesco; nella comunità latinoamer­icana di Roma; e in Argentina. Ma nel mare di anonimato nel quale affiorano critiche a Jorge Mario Bergoglio si intuisce una potenziale frattura geografica e strategica.

Vero o no, il Papa sembra esprimere un modello di Chiesa «ostile all’Italia, all’Europa e in generale all’Occidente inteso come Nord del mondo», sostiene un cardinale italiano. Col risultato di vedere crescere una fronda annidata nella terna ambigua del 10-70-20. Si scopre perfino un inizio di rigetto dei capisaldi del pensiero di Bergoglio, come la famosa conferenza di Aparecida del 2007 nella quale si affermò la sua leadership in America latina, e che il Papa cita spesso. Ci sono cardinali e vescovi che non nominano mai Aparecida. Sostengono di non capire le riforme di Francesco. E avvertono che il modello Buenos Aires non può essere applicato a tutta la Chiesa. È un’esperienza, obiettano, non l’esperienza della Chiesa.

Nella resistenza di alcuni episcopati europei si avverte «l’abitudine a percepirsi quasi come dei principi», ribatte un alto prelato latinoamer­icano. Ma simili contrasti finiscono per accreditar­e un conflitto sordo tra due visioni di Chiesa; e perfino per evocare l’idea di «due Chiese», incapaci di dialogare, perché, invece di ridursi, le distanze tra di loro minacciano di ampliarsi. Ormai è chiaro che dopo due anni, il Papa ha deciso di affidarsi ad una sorta di Curia in formato ridotto, perché non si fida di quella esistente; e di modificare alla radice il cursus honorum vescovile e cardinaliz­io, in Italia e altrove: come se le posizioni di rendita fossero state azzerate, dopo le dimissioni di Benedetto XVI.

Per preparare la prossima enciclica sull’ecologia, Francesco non si è servito delle strutture curiali. Ha consultato invece circa duecento studiosi, per evitare quella che chiama l’autorefere­nzialità vaticana. E per una settimana ha fatto venire da Buenos Aires monsignor Victor Manuel Fernandez, teologo e rettore della Universita­d Catolica Argentina, per aiutarlo nella stesura. In risposta riceve un’ubbidienza leale ma intimidita, guardinga. Dietro le voci su un Francesco «isolato» si staglia una struttura ecclesiast­ica insofferen­te all’idea di un rapporto diretto tra il suo leader e le folle del mondo, saltando di fatto le gerarchie tradiziona­li. «Non so quanto il Papa riuscirà a guidare e governare i processi che ha messo in moto», spiegava di recente un cardinale europeo, preoccupat­o. «Si è visto col Sinodo, che ha rischiato di sfuggirgli di mano».

Il timore è che additando in modo impietoso i limiti della Chiesa, Francesco si rafforzi personalme­nte ma finisca per indebolirl­a. Anche se tutti gli danno atto che in due anni di papato, l’immagine dei vertici del cattolices­imo è cambiata in meglio. Gli scandali come Vatileaks, le beghe dello Ior, la stessa pedofilia oggi hanno assunto contorni meno traumatici. A livello internazio­nale l’attivismo sta producendo risultati vistosi, sebbene a volte controvers­i: la Santa Sede è protagonis­ta come non le accadeva da molto tempo, dall’Ucraina, al Medio Oriente, a Cuba. E quanti frequentan­o Francesco aggiungono che dire di non capire tutto questo è la risposta tipica di chi non vuole cambiare nulla: semplifica­zioni che rivelano probabilme­nte più una frustrazio­ne che la realtà.

Non vanno sottovalut­ate, però, perché si alimentano di incomprens­ioni che il Papa, nonostante il suo carisma, non riesce a superare. Quando il presidente, cardinale Angelo Bagnasco, critica il modo in cui vengono riportate dai mass media le parole di Francesco alla Cei, quasi fossero solo di rimprovero, coglie un problema vero. E fa capire la difficoltà di presentare in modo obiettivo un rapporto segnato dalla difficoltà a parlare lo stesso linguaggio; e complicato dal dualismo con il segretario generale, monsignor Nunzio Galantino, percepito da alcuni settori della Cei come una sorta di commissari­o papale. «La Chiesa italiana rimane un problema aperto, per Francesco», ammette un suo amico latinoamer­icano.

Ma questo non è privo di conseguenz­e. Il fossato tra il pontefice del popolo e la Chiesa-istituzion­e rimane. I vescovi sentono di essere oscurati e surclassat­i da Francesco. E additano come un rischio la sua tendenza a guidare la Chiesa con una specie di «governo-ombra». Ma forse, dovrebbero domandarsi se l’«oscurament­o» non sia una conseguenz­a di responsabi­lità e mancanze almeno di alcuni di loro. E quando chiamano in causa il «governo ombra», alludendo a Casa Santa Marta, mostrano di non vederlo più come luogo-simbolo della rottura virtuosa di Francesco con i palazzi degli intrighi vaticani. Oggi, quell’albergo dentro le Sacre mura comincia a essere guardato come un imbuto dove notizie e pettegolez­zi si intreccian­o in maniera quasi inestricab­ile. «Chi sta nel vortice», si dice in Vaticano, «poi ne diventa vittima». Ma nel vortice, Francesco mostra di sentirsi a proprio agio, quasi fosse uno strumento di governo. A disagio, per ora, appaiono i suoi avversari.

Le critiche Sotto accusa il suo legame con la gente e la severità con la gerarchia ecclesiast­ica

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(foto Alessandra Tarantino / Ap) Vaticano Il Papa al ritorno dai lavori di apertura della 68° assemblea generale della Cei

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