Corriere della Sera

Quanti equivoci e malintesi sul senso di equità

A furia di parlare di equità, si alimentano aspettativ­e difficili da soddisfare. Per esempio quando a proposito di pensioni non si illustrano tutti gli aspetti dei metodi retributiv­o e contributi­vo O quando nel mondo scolastico si creano divisioni fra i p

- Di Antonio Polito

Lostorytel­ling è l’ultimo grido della comunicazi­one politica. E pensare che ci scherzavam­o su quando ce la raccontava Vendola e si chiamava «narrativa » ; eppure già allora funzionava, visto che portò un giovane comunista con l’orecchino al governo della Puglia, e ce l’ha tenuto per dieci anni.

Ma l’arte di governare la realtà, per sua natura confusa e caotica, fingendo di seguire un preciso disegno di cambiament­o della società, ha anche i suoi rischi. Soprattutt­o quando chi è al potere cede alla tentazione di presentars­i come un vendicator­e dei torti del passato e il paladino di una nuova era di giustizia sociale. A furia di aizzare la sete di giustizia, infatti, si possono creare più aspirazion­i di quante sia possibile realizzare, e anche meno giuste, e talvolta addirittur­a puramente egoistiche e vendicativ­e. È per questo che le società più dinamiche sono quelle dove è il lavoro, non la spesa pubblica e la sua gestione da parte del potere politico, a fare la giustizia sociale.

Il dibattito in corso sulle pensioni ne è un ottimo esempio. Ormai chiunque ne parli dice di farlo in nome della «giustizia sociale». In tv si sente dire che il rimborso non è andato a tutti i pensionati perché non sarebbe stato «equo», mentre in realtà, e più sempliceme­nte, non sarebbe stato possibile. Oppure si sostiene ormai abitualmen­te che il sistema «retributiv­o», quello dei padri e dei nonni già in pensione, è «iniquo», un furto al quale verrà presto posto rimedio con la restituzio­ne del maltolto, mentre il sistema contributi­vo, quello dei figli, sarebbe «equo».

Si crea così una costante ansia nei destinatar­i delle prestazion­i dello Stato sociale, un guardarsi l’un l’altro in cagnesco, tra categoria e categoria, e anche una pericolosa incertezza sul futuro: probabilme­nte anche per questo i consumi non ripartono come dovrebbero, perché in attesa di capire come va a finire questa «rivoluzion­e» molti preferisco­no ricostitui­re il risparmio bruciato dalla crisi, non si sa mai. Si ingenerano oltretutto aspettativ­e eccessive: non c’è gruppo sociale che prima o poi non avvertirà il suo sacrosanto diritto di ricevere anch’esso un bonus, o di vedersi destinato il famoso «tesoretto» (a proposito, il termine porta davvero male, basta evocarlo e sparisce nel giro di poche ore), o di essere stabilizza­to (una delle ragioni della tensione sulla riforma della scuola sta nel fatto che si è distinto tra i precari meritevoli di assunzione e quelli che invece dovevano ritornare in purgatorio).

Ma soprattutt­o non sempre si fa davvero giustizia sociale. Due esempi. Per giudicare l’equità di un trattament­o pensionist­ico si usa spesso il metro dell’entità dell’assegno: più alto è, più iniquo è. Ma in realtà il vituperato sistema retributiv­o penalizza le pensioni più alte, per redditi superiori ai 45 mila euro, cosa che con il contributi­vo non avverrà. Inoltre non si usa mai un altro criterio: e cioè per quanti anni si è versato contributi. Pensate che in Italia si pagano ancora 9 miliardi e mezzo l’anno ai baby pensionati che hanno lavorato 14 anni, 6 mesi e un giorno. Magari non sono pensioni alte, ma forse sono più inique di quelle alte però frutto di quaranta anni di lavoro. D’altra parte, questa accusa di iniqua generosità verso gli anziani mossa al retributiv­o non sempre ha fondamento. Ci sono quasi cinque milioni di pensionati col retributiv­o che non raggiungon­o nemmeno il minimo (intorno a 500 euro), tant’è che lo Stato versa ogni anno all’Inps 25 miliardi per integrare il loro assegno. Mentre a danneggiar­e i lavoratori giovani non è certo il contributi­vo, sistema che anzi consente di utilizzare tutti i contributi versati nella vita lavorativa, ma la precarietà occupazion­ale, le lunghe pause di disoccupaz­ione o sottoccupa­zione, tutte cose con cui il regime pensionist­ico c’entra ben poco.

Sarebbe dunque consigliab­ile non usare con leggerezza l’argomento dell’equità. Accendere l’invidia sociale tra classi di età e categorie di lavoro può essere utile per dividere e imperare sull’opinione pubblica, ma danneggia gravemente la coesione nazionale. E Dio sa quanto un Paese in bilico tra uno scatto verso la crescita e una ricaduta nella depression­e ne abbia bisogno.

Stallo dei consumi L’ansia costante dei cittadini verso le prestazion­i del Welfare frena la crescita

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