La guerra di Benicio Del Toro: sparo ai narcos per vincere
Benicio Del Toro prende la mira sotto gli occhiali da sole che nascondono le sue occhiaie (irresistibili agli sguardi femminili). E spara. Una, due, cento volte. Nel film di Denis Villeneuve, che parla di narcotrafficanti sull’orlo del burrone messicano, i confini sono tanti, allineati in uno stretto sentiero: geografici, lungo il filo spinato che vide Messico e Stati Uniti; psicologici, per la vulnerabilità del personaggio di Emily Blunt che crea empatia col pubblico; etici, per la sottile linea rossa che divide il bene dal male, nel rovello machiavellico: il fine giustifica i mezzi, per spazzare via il Cartello della droga?
«Solleviamo domande e non diamo risposte», dice Benicio Del Toro. Che ha dato il titolo al film, Sicario, ma combatte per la giusta causa come ambiguo consulente della Difesa del governo americano. Dietro la sete di giustizia c’è una vendetta personale, i boss messicani gli hanno fatto fuori moglie e figlia coi loro metodi che Gomorra al confronto è un manuale da boy scout. Il film tiene in bilico sulla frontiera Benicio Del Toro, che va alla guerra col suo sguardo magnetico. Chi è lui, un giustiziere della notte o uno che ha la mira buona e toglie dalla faccia della Terra i simboli del male assoluto (con qualche innocente in mezzo)?
Il set era tra New Mexico, Texas, e una parte a Veracruz, Vendicativo Benicio Del Toro (48 anni) in una scena del film «Sicario» in Messico. «Ho interpretato diversi film in quella parte del mondo, qui diciamo qualcosa di nuovo col mio ruolo», dice il portoricano Benicio. Per lui, Traffic, che gli valse l’Oscar, è solo un lontano parente di Sicario.
È la prima volta che il regista canadese Villeneuve siede alla tavola del concorso. Nonostante le memorie ferrariste del suo cognome, Villeneuve si proclama «molto lento», e a Josh Brolin, nel ruolo di un agente assai operativo, gli sembrava «un tipo insicuro, ti faceva mille domande, poi ho capito che è un figlio di p… è un magnifico manipolatore che sa esattamente quello che vuole».
Un thriller a Cannes è una sedia a cui manca una gamba, è l’imbucato, qualcosa che si guarda con quell’aria distratta che solo i francesi hanno. Però a fine proiezione sono entusiasti e il francesista Aldo Tassone chiama in causa Sam Peckinpah, e c’è chi strapazza il personaggio femminile rischiando di impantanarsi nelle sabbie mobili delle quote rosa mai così folte come quest’anno, prendendo di mira l’agente dell’Fbi Emily Blunt, che si porta a letto il poliziotto corrotto e vuole pure fare la morale.