Anche sui tasti si «suona» la nuova primavera C’
è qualcosa di nuovo, quest’anno, nelle suggestioni e nella ricezione di Piano City. In apparenza, la rassegna, come identità, rimane se stessa: una gioiosa «invasione» di pianoforti in città. Peraltro: tra la Scala e il Conservatorio, dove ogni settimana sfilano i massimi solisti al mondo, Milano è Piano City un po’ tutto l’anno, e da decenni. Certo, qui è un’altra cosa: il pianoforte non cala dall’alto, semplicemente «appare», c’è già. Esce allo scoperto, si illumina, accende salotti e cortili, spunta tra i grattacieli di Porta Nuova, si mette le ruote e diventa pianobici, sale in tram, solca i Navigli come pianoboat, neanche fosse Händel sul Tamigi. E così, nel proclamare se stesso, rivendica tutta una cultura. Vedrete pianoforti per le strade e gente che li suona. Perché la musica non è solo estasi e sballo, è qualcosa che si studia e si pratica, fin da piccoli, è la voce della nostra storia. E «quelli del pianoforte» non sono Avengers dotati di superpoteri, o superstiti di un tribù in estinzione, no, sono qui tra noi, persone normali; magari l’insospettabile condomino del 12/b o quel bambino con la cartella, che oggi sta andando a scuola, domani ci faranno fior di «house concert». Eppure qualcosa di diverso c’è. È diversa Milano: quest’anno i pianoforti sbucano in una città che sta riscoprendo il piacere di se stessa, così bella quando è bella, e anche il valore del proprio essere comunità solidale. Piano City riecheggia nella Milano che si sforza di non sfigurare all’Expo, che reagisce di slancio all’insulto dei vandali, e si ritrova in piazza, gli spazzoloni in mano, a cancellare gli sfregi. Una metropoli che difende e condivide la propria civiltà. Ma allora, ribaltando le prospettive, vien da chiedersi: questa «nuova» Milano, più accorata, coesa e partecipe, non sarà un po’ figlia (anche) di proliferazioni di cultura ricche e vive come Piano City?