Parlamentari condannati: lo stop ai vitalizi
Le argomentazioni adottate sul Corriere dell’8 maggio da un serio costituzionalista come Michele Ainis, per salutare come lieta la notizia giunta dalle Camere, relativa «allo stop ai vitalizi per gli ex parlamentari colpevoli di reati», imporrebbero una approfondita riflessione. Qui si può solo evidenziare qualche punto.
I regolamenti parlamentari che hanno introdotto i vitalizi potevano ovviamente prevederne la decadenza nei confronti del parlamentare condannato penalmente. La previsione non fu fatta. Essendo stata introdotta ora dopo molto tempo, è stata posta in essere una norma con i connotati oggettivi di una sanzione penale accessoria, applicabile a seguito di condanna solo da un organo giurisdizionale. La norma viola il principio di irretroattività della legge penale (art.25 Cost.) e del giudice naturale. Il rilievo che il vitalizio non è un premio, che la sua revoca non è un castigo e pertanto non è pena accessoria non ha supporto giuridico. Se la revoca è conseguenza di una condanna non può non essere che pena accessoria. Pur riconoscendo che il vitalizio è una pensione, l’articolista si chiede: «Ma è un lavoro quello dei parlamentari? Se non hanno le trattenute in caso di malattia e neppure l’obbligo di presentare il certificato medico, come si fa a parlare di lavoro?». Queste perplessità possono scaturire solo da chi ha una visione burocratica delle funzioni parlamentari, non voluta dal Costituente. La restituzione dei ratei delle trattenute previdenziali non risolve il problema, perché il rimborso esce fuori dall’accordo che prevedeva la programmazione di un vitalizio, fruibile anche da parte degli eredi del parlamentare. Evita solo l’indebito