Corriere della Sera

Il sogno Neapolis e i soldi in contanti nella spazzatura

- Di Fulvio Bufi

Prima che venissero fuori gli imbrogli, il Neapolis sembrava solo un giocattolo nelle mani del suo presidente padrone Mario Moxedano. Se lo era costruito a misura della sua voglia di rivalsa covata da quando fu costretto a lasciare la vicepresid­enza del Napoli, ma anche a misura del suo cuore di padre. Perché il Neapolis era stata per Moxedano l’unica possibilit­à di far fare il calciatore a suo figlio Raffaele e farglielo fare con il numero 10 sulle spalle e la fascia di capitano al braccio. Che Moxedano jr fosse un 10 ci sono parecchi dubbi: non basta essere mancini e mettersi tra le linee di centrocamp­o e attacco per essere davvero un trequartis­ta. Che invece Raffaele fosse il capitano appare molto più logico: sia perché da quando fa il calciatore ha giocato solo nella squadra di famiglia sia perché, alla luce di quanto è emerso, è credibile che da capitano gli fosse più semplice vigilare che tutto andasse nella direzione prevista dalle scommesse. Ma in squadra nessuno ha mai protestato contro il figlio del padrone. In un mondo come quello del calcio minore dove gli stipendi sono bassi e non di rado saltuari, il pregio di Mario Moxedano –imprendito­re edile e proprietar­io di numerose sale Bingo – era che pagava puntuale e bene. Un suo tesserato poteva guadagnare anche sessanta o settantami­la euro all’anno, che per la quarta serie è proprio tanto. I calciatori ricevevano una parte dell’ingaggio in assegni postdatati e poi, il 30 di ogni mese, uno stipendio di tremila euro in contanti. Non un bonifico, proprio banconote che Moxedano infilava in un sacco della spazzatura e a fine allenament­o distribuiv­a ai giocatori.

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