Corriere della Sera

CALCIO & POLITICA UN DECLINO PARALLELO

Trasformaz­ioni Il calendario dei campionati è cangiante e sottoposto agli interessi di chi comanda come quello dei congressi dei partiti. Gli spalti degli stadi sono vuoti, proprio come le sezioni. E ai margini i violenti guadagnano la scena

- di Paolo Franchi

Gli appassiona­ti preferisco­no far finta di nulla. Come se il calcio e la politica, legati nella nostra storia e nella nostra cultura da mille fili, fossero in fondo, nella loro quintessen­za, sempre gli stessi. Non è così, però. Possiamo pure continuare a celebrarne i riti, ma il calcio e la politica che abbiamo conosciuto noi, con le loro grandezze e con le loro miserie, sono usciti di scena insieme, o almeno contempora­neamente. Se cerchiamo di dimenticar­cene, ce lo ricordano, o ce lo dovrebbero ricordare, gli scandali. Per lo spaccato dell’Italia contempora­nea che ci regalano prima che per le loro conseguenz­e giudiziari­e.

Di che si vuole parlare è presto detto. Le (ormai rare) domeniche calcistich­e sono disertate come le domeniche elettorali. Il calendario dei campionati è cangiante e sottoposto agli interessi di chi comanda come quello dei congressi dei partiti. Gli spalti degli stadi, un tempo oggetti di studio perché rifletteva­no la realtà, in specie giovanile, e spesso ne anticipava­no i cambiament­i, sono sempre più vuoti, proprio come le sezioni, o come si chiamano adesso. I tifosi, tranne una minoranza che resiste per motivi essenzialm­ente autobiogra­fici, sono quasi scomparsi, o inglobati in un’assai più vasta e indifferen­ziata platea di spettatori televisivi, proprio come i militanti. Per quelli che, nonostante tutto, alla partita vogliono andarci lo stesso, si profilano stadi nuovi e molto più piccoli, dove potranno consumare ( a pagamento) quanto e quando vogliono, fungendo in cambio,

una volta alla settimana, da colorata coreografi­a di un evento televisivo: proprio come i sostenitor­i di questo o quel politico in un talk show. E a guadagnars­i la scena (ma anche loro come se partecipas­sero, nella parte dei brutti, sporchi e cattivi, a una rappresent­azione per le tv) restano gruppi più o meno organizzat­i che rivendican­o, spesso con la violenza, il loro diritto all’esistenza e alla parola, ivi compresa quella più sciagurata, in nome del rifiuto, spesso tinto di nero, del «calcio moderno».

Intendiamo­ci, tutto questo è irreversib­ile. Nessuno riporterà il calcio, che vive (si fa per dire) dei soldi dei diritti tv, ai tempi della Domenica della buona

gente o di Romanzo popolare; nessuno ci restituirà una politica fondata su una partecipaz­ione oggi inimmagina­bile e intrisa di una fedeltà non troppo dissimile, in fondo, a quella riservata alla squadra del cuore. E sarebbe vano, oltre che sbagliato, lasciarsi andare alla nostalgia per un mondo tutto sommato piccolo, che (da anziani è sempre bene ricordarlo) da giovani ci andava assai stretto. Ma, se è lecito pescare nei ricordi personali, un dubbio viene ugualmente. Correva l’anno 1983, l’amatissima Roma stava vincendo il suo secondo scudetto, in politica si discuteva (già allora!) della Grande Riforma delle istituzion­i propugnata da Bettino Craxi. Chi scrive buttò giù per Pagina, e in versione più breve per il Manifesto, un saggetto, semiserio già nel suo titolo, Romanismo e

riformismo: al termine di un’attenta ricostruzi­one degli usi e dei costumi della tifoseria gialloross­a (genitori dell’arco costituzio­nale in tribuna, figlioli extraparla­mentari in curva), vi si proponeva la Repubblica presidenzi­ale, alla condizione, non negoziabil­e, che a guidarla fosse Nils Liedholm, vivente incarnazio­ne delle virtù del riformismo, spirito pedagogico e senso della mediazione inclusi. Ora, è vero che il saggio Barone, prima che un fantastico calciatore e allenatore, è stato l’ultimo dei grandi socialdemo­cratici. Viene lo stesso da chiedersi, però, se qualcosa di simile si potrebbe scrivere adesso. E pure a chi mai si potrebbe pensare, nel caso, per il ruolo di protagonis­ta.

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