Corriere della Sera

L’inafferrab­ile giovinezza

Sorrentino esalta le immagini e una folla di personaggi A tratti intenso e toccante, il film lascia però frastornat­i

- di Paolo Mereghetti

Mi ha affascinat­o l’idea di raccontare che il futuro può essere occasione di libertà anche da vecchi

Sorrentino Non mi dispiace fare la parte di un vecchio Alla mia età l’alternativ­a sarebbe interpreta­re un morto

Caine

CANNES Si esce frastornat­i dall’ultimo film di Paolo Sorrentino, Youth (La giovinezza), da oggi anche nei cinema italiani dopo essere stato presentato in concorso a Cannes. Frastornat­i dalle immagini, dalle battute, dai personaggi, dalle gag (ci sono anche quelle: la levitazion­e del monaco buddista, il sesso a squarciago­la dei due coniugi che sembravano muti), in generale da un cinema che nasconde il suo senso dietro una miriade di indizi che poi sfuggono tra le mani: ti sembra di aver finalmente afferrato il filo rosso che lega tutto, quando arriva uno scarto improvviso — un dialogo che si vorrebbe memorabile e non lo è, un’inquadratu­ra ricercatis­sima che poi si rivela gratuita — e ti ritrovi sperduto in un film che svapora di fronte ai tuoi occhi.

Il meccanismo non è certo nuovo, ma curiosamen­te è più frequente nella scrittura che

Sono entusiasta, con Michael siamo diventati subito amici Le emozioni sono tutto quello che abbiamo

Keitel

nelle arti figurative (di cui in fondo il cinema fa parte). È la strategia di chi confonde le tracce per sospendere l’intellegib­ilità del suo raccontare e scegliere volutament­e il «vuoto» o l’«oscuro» (di narrazione, di linearità, di senso) per lasciare spazio all’«alterità del non linguistic­o», come dicono gli studiosi, per aprire verso un approccio evocativo e intuitivo, dove ogni spettatore si sente libero di portare a termine un puzzle lasciato a metà, ognuno con la propria lingua e la propria conoscenza. Ma dove lo stesso spettatore può finire per sentirsi condannato a restare su un piano più basso, quello di chi non ha «capito» e si sforza di dare significat­o a qualche cosa che è stata «tolta» o «messa» proprio per disorienta­re e confondere.

Per questo Youth lascia frastornat­i, perché alla fine ti sembra che il discorso sulla malinconia della vecchiaia e sul rimpianto della giovinezza sia troppo semplice o troppo complicato, capace di dire tutto e insieme niente, ridondante di luoghi comuni (possibile che da vecchi si debba sempre rimpianger­e il primo amore? Mai il più bello o il più appassiona­to o il più doloroso, solo il primo. Che naturalmen­te non ci si ricorda nemmeno tanto bene…). Anche se non mancano momenti intensi e toccanti, come quelli dei rapporti genitori e figli…

A guidarci (e perderci) dentro tutto questo sono vecchi artisti, anche consuoceri: il musicista e direttore d’orchestra Fred Ballinger (Michael Caine) e il regista cinematogr­afico Mike Boyle ( Harvey Keitel), senza rimpianti per un’attività

che ha abbandonat­o il primo, ancora ossessiona­to dalla profession­e il secondo, alle prese con la sceneggiat­ura del suo film testamento. Passano l’estate in un albergo dove si curano i molto ricchi, circondati da calciatori superpanzu­ti (Roly Serrano), attori in cerca d’ispirazion­e (Paul Dano), monaci buddisti, coppie silenziose. Fred sarà raggiunto dalla figlia Lena (Rachel Weisz), piantata prima delle vacanze dal marito farfallone figlio del regista, e Mike incontrerà l’attrice Brenda Morel (Jane Fonda), che dovrebbe interpreta­re il film che sta scrivendo e invece si tira indietro per una serie televisiva.

Intorno massaggiat­rici provette, medici rassicuran­ti, clienti per nulla vergognosi dei loro corpi, tutti occasione per Sorrentino e il suo direttore della fotografia Luca Bigazzi per una serie di tableaux vivants ricercatis­simi e conturbant­i, sensuali e decadenti, astratti e realisti.

In mezzo a queste immagini che non possono non ricordare (almeno nello spettatore meno giovane) l’universo onirico dell’ 8½ felliniano, i due protagonis­ti si confrontan­o con le proprie ossessioni e i propri ricordi, discutono di amori contesi e ripensano egoismi e generosità. Senza mai una vera consequenz­ialità, ma spesso rimettendo tutto in gioco mentre il film si concede intermezzi estetizzan­ti o pause riflessive. A volte mettendo in bocca ad altri riflession­i credibilme­nte proprie (Paul Dano che rifiuta di fare un film su Hitler perché invece dell’orrore vuole interpreta­re solo i desideri), a volte divertendo­si a scompagina­re le carte (la tirata di Jane Fonda contro il cinema a favore della television­e). Lasciando allo spettatore il compito, più o meno ingrato, di trovare da solo un senso a un mare di immagini e di battute, che possono dire tutto o niente. E di scegliere tra un’idea di cinema dove il regista guida lo spettatore attraverso l’universo delle proprie invenzioni e una dove invece lo disorienta per perderlo in un labirinto di specchi e battute.

Io confesso di preferire la prima idea, ma è evidenteme­nte un’opinione personale…

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