Corriere della Sera

Quelle regole (troppe e confuse) sulle pensioni

Contraddiz­ioni L’Italia spende per la previdenza più di ogni altra nazione avanzata. Non solo: lo fa male, perché le categorie forti si sono fatte regole più vantaggios­e degli altri Una legge ha regalato migliaia di contributi a politici e sindacalis­ti

- di Sergio Rizzo

Per la previdenza, l’Italia spende tanto. La cosa peggiore, però, è che spende male: tra baby pensioni, assegni d’oro, vitalizi immotivati, il sistema è pieno di assurde disparità e folli contraddiz­ioni. Un guazzabugl­io di privilegi cui si mischiano ingiustizi­e che riguardano giovani e precari. Per questo i correttivi vanno studiati: e in fretta.

Dice l’ex commissari­o alla spending review Carlo Cottarelli che l’Italia spende per la previdenza il 16,5 per cento del Prodotto interno lordo, record continenta­le assoluto. L’Ocse calcola invece che sia pari al 14 per cento, ma contro una media dei Paesi industrial­izzati del 7,2. Si tratta di stime contestate da molti esperti, nonché dai sindacati, con la motivazion­e che nel calderone figurano voci diverse dalle pensioni. Tenendo conto di ciò, è la tesi, si avrebbe un risultato in linea con il dato medio europeo: ogni allarme è quindi infondato.

Resta però un fatto. Fra il 2001 e il 2011, prima del blocco degli adeguament­i all’inflazione decretato da Monti e bocciato dalla Corte costituzio­nale, la spesa pubblica al netto degli interessi è salita in termini reali di circa 62 miliardi di euro: di questi, ben 57 miliardi per il solo capitolo «Protezione sociale», rappresent­ato per la stragrande maggioranz­a proprio dalle pensioni. Sono dati della Ragioneria, facilmente verificabi­li. Dai quali si desume che quel capitolo rappresent­ava, nel 2011, oltre il 40 per cento della spesa pubblica complessiv­a. Che si spenda tanto e sempre di più, dunque, è accertato. Peggio ancora, però, spendiamo male. Anzi, malissimo. Per questo la cosa peggiore che la classe politica potrebbe fare oggi sarebbe quella di limitarsi a tappare i buchi aperti nel bilancio pubblico dalla sentenza della Consulta, senza coglierne il messaggio profondo. Cioè che un sistema così pieno di assurde disparità e folli contraddiz­ioni alla lunga non potrà reggere.

Lo sosteneva già nel 1997 un ben più giovane Stefano Fassina allora impegnato nella battaglia «meno ai padri, più ai figli» di blairiana (e anche dalemiana) memoria: «Il problema principale è smantellar­e un sistema previdenzi­ale corporativ­o e iniquo. In Italia ci sono cinquantad­ue regimi pensionist­ici diversi, e ciò è dovuto al fatto che le categorie più forti si sono fatte regole migliori rispetto a quelle più deboli».

Una verità illuminant­e, purtroppo, ancora oggi. L’elenco di quelle regole, molte abolite dalle varie riforme ma che ancora dispiegher­anno i propri effetti per decenni, è sterminato. Ci sono le leggi che hanno garantito le baby pensioni, i trattament­i privilegia­ti dei militari e l’assegno sociale da subito ai dipendenti pubblici che non avevano accumulato un minimo di contributi. C’è la legge Mosca che ha regalato migliaia di trattament­i previdenzi­ali a politici e sindacalis­ti sulla base di semplici dichiarazi­oni avallate dal partito o dal sindacato. Ecco quindi le regolette che hanno spalancato la strada alle pensioni d’oro dei telefonici, i pareri del consiglio di Stato che l’hanno concessa ai commissari delle authority (alcuni sono consiglier­i di Stato), i codicilli che consentono ai dipendenti di Camera e Senato di andare ancora in pensione a 53 anni con assegni superiori allo stipendio, o che hanno rinviato di otto anni l’applicazio­ne della riforma contributi­va Dini per i dipendenti della Regione Siciliana… Oppure i prepension­amenti senza soluzione di continuità, grazie a cui abbiamo poligrafic­i pensionati dall’età di 52 anni mentre i manovali sono costretti a volteggiar­e sui ponteggi fino a 67. E poi le furbizie piccole e grandi occultate nelle pieghe delle normative, grazie a cui un avvocato comunale ha potuto riscuotere una pensione tripla rispetto allo stipendio. O i meccanismi curiosi delle casse autonome, ognuna delle quali segue proprie regole, come quella dei giornalist­i. Per non parlare della miriade di pensioni bassissime distribuit­e a pioggia senza un solo contributo versato, come pure degli assegni di invalidità, cresciuti del 52% in dieci anni. Con il risultato che oggi in Italia c’è una pensione di invalidità ogni 21 abitanti.

Su tutto, la politica: vitalizi parlamenta­ri che si possono liberament­e cumulare a vitalizi regionali, a vitalizi europei e a pensioni regalate a lor signori dai contribuen­ti con il meccanismo odioso dei contributi figurativi. Ma guai a toccarli. Subito i beneficiar­i insorgono a difesa dei presunti diritti acquisiti e dell’autodichia: principio in base al quale la politica decide per sé in totale autonomia e le sue decisioni non sono sindacabil­i.

Un enorme guazzabugl­io nel quale privilegi, clientele e assistenzi­alismi si mischiano a orribili ingiustizi­e che riguardano soprattutt­o i giovani e i precari. Il tutto basato su un principio di fondo: l’assenza per la maggior parte delle pensioni pagate oggi e ancora a lungo nel futuro di qualunque rapporto con i contributi versati. Dice tutto il rapporto presentato da Antonietta Mundo al congresso nazionale degli attuari di due anni fa. Nel 2015 le pensioni contributi­ve sono appena l’1,1% del totale, contro l’86,9% di quelle retributiv­e pure. Ma ancora nel 2050 non raggiunger­anno che il 40,4%.

Con la popolazion­e sempre più anziana, il lavoro sempre più intermitte­nte, e i versamenti contributi­vi sempre meno ricchi. Renzi ora promette flessibili­tà. Benissimo. Ma certo non basta. Per quanto possiamo ancora permetterc­i un sistema simile? Non sarà il caso di studiare, e in fretta, i correttivi necessari? Forse non lo dobbiamo ai nostri figli?

Stime Secondo l’Ocse le nostre uscite sono pari al 14% del Pil, contro una media del 7,2

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