Corriere della Sera

LO SCACCO A OBAMA

- Di Massimo Gaggi

Non si tratta solo della scarsa efficacia di una strategia basata su attacchi dal cielo condotti prevalente­mente coi droni: la caduta di Palmira in Siria e, ancor più, quella di Ramadi in Iraq, sono il termometro di un fallimento ben più vasto che un columnist certamente ostile a Barack Obama, ma acuto come Charles Krauthamme­r, sintetizza in modo efficace: «In Siria c’era gente pronta a combattere contro i terroristi dell’Isis e il carnefice Assad, ma noi americani abbiamo deciso di non aiutarli dicendo che erano ingegneri, medici, banchieri: poco credibili con le armi in mano. In Iraq, invece, abbiamo continuato a cercare di costruire un esercito locale con capi settari e soldati corrotti che non avevano voglia di combattere».

Parole forti ma nelle quali c’è del vero e adesso per l’Iraq, anche al di fuori dei circoli repubblica­ni, si comincia a parlare apertament­e di strategia fallimenta­re di due presidenti. Certo, Obama aveva ereditato da Bush una situazione impossibil­e a Bagdad: l’invasione del 2003 aveva eliminato Saddam Hussein e la sua classe dirigente sunnita senza riuscire a costruire, come da promesse, uno Stato democratic­o e multietnic­o. Il presidente democratic­o ha, in diversi modi, cercato il disimpegno.

Lo ha fatto ritirando i soldati dal Paese, responsabi­lizzando la nuova dirigenza locale, favorendo un ricambio al vertice quando il regime di Al Maliki è divenuto apertament­e filo-iraniano, rendendo così impossibil­e il dialogo con i sunniti.

La Casa Bianca ha puntato sul nuovo premier, Al Abadi, che sembrava impegnato a conquistar­si la fiducia di tutte le etnie del mosaico iracheno. Ma anche lui è ora alle prese con una «crisi di rigetto» dei sunniti, schiacciat­i tra i massacri dell’Isis e l’arrivo delle milizie sciite che, vista la scarsa resistenza opposta dall’esercito iracheno, rimangono l’unica difesa efficace contro l’avanzata del «Califfato» verso Bagdad.

Ancora pochi giorni fa, con l’incursione delle forze speciali Usa in Siria per eliminare il «ministro del petrolio» dell’Isis, la Casa Bianca ha sostenuto la narrativa di una coalizione di Paesi occidental­i e del Golfo che, nonostante qualche rovescio, è all’attacco contro lo Stato Islamico. «Non credo che con l’Isis stiamo perdendo», ha detto Obama in un’intervista alla rivista The Atlantic rilasciata martedì e pubblicata ieri. Ma ora le tv continuano a riproporre quelle e altre dichiarazi­oni — Obama sicuro che «la nostra coalizione è all’offensiva» e il suo portavoce Josh Earnest che definisce «un successo» la strategia Usa contro il «Califfato», riducendo la caduta di Ramadi a un episodio — solo per deriderle: « Spero che quello di Obama sia puro cinismo», taglia corto Krauthamme­r, «se crede davvero in quello che dice, siamo nei guai».

Guai che l’ex ministro della Difesa di Bush e di Obama, Robert Gates, definisce con poche, crude parole: «Il gap tra la retorica e i risultati sul campo è molto vasto. I nostri nemici hanno Ramadi, Falluja e Mosul: cacciarli da queste città è un lavoro tremendame­nte difficile».

Il presidente Usa ha confermato il suo no all’ipotesi di truppe Usa sul campo. «Non possiamo fare quello che dovrebbero fare gli iracheni». Piani di riserva non sembra averne, salvo un maggior ricorso alle milizie sciite davanti alla pochezza dell’esercito iracheno: ma quei miliziani sono incontroll­abili. Al massimo rispondono agli ayatollah di Teheran, non certo al governo di Bagdad. E la campagna elettorale Usa complica ulteriorme­nte le cose: si guarda al passato anziché al futuro, coi repubblica­ni che continuano ad attaccare Hillary Clinton per gli errori fatti in Libia e Obama per il ritiro Usa dall’Iraq giudicato prematuro, visto che il vuoto creato da quel disimpegno è stato riempito dall’Isis.

E il nuovo presidente che si insedierà nel 2017 non si troverà in una posizione migliore, visto che in America prevalgono gli umori contrari a un ritorno in guerra, mentre in tutto il Medio Oriente, dallo Yemen al Libano, si assiste a una progressiv­a disintegra­zione del sistema degli Stati-nazione e a una frantumazi­one del fronte sunnita. Unica consolazio­ne per Washington, secondo Roula Khalaf, commentatr­ice libanese del Financial Times: l’Arabia Saudita è pronta a sostituire gli americani nel ruolo di «Grande Satana» agli occhi degli iraniani. Magra consolazio­ne.

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