Corriere della Sera

L’impossibil­ità di inventare l’oblio

Il valore fondante della memoria come custodia e salvezza può degradarsi in ossessione

- Di Claudio Magris

Una leggenda bretone del ciclo della Tavola Rotonda narra che Merlino, il mago conoscitor­e della sapienza arcana, s’innamora di Viviana, la bellissima perfida fata al servizio delle potenze infere, che lo seduce per togliergli la forza di combatterl­e. Ad ogni incontro d’amore nella foresta, ad ogni bacio, Merlino le svela un segreto che, per una malia della seduttrice, dimentica subito dopo averlo rivelato, sinché alla fine non sa più nulla. L’amore quale scienza o magia dell’oblio? Anche Ulisse — sottolinea Harald Weinrich nel suo splendido saggio Lete. Arte e critica dell’oblio — soggiace alla dimentican­za fra le braccia di Circe o di Calipso e il loto che smemora i suoi marinai assomiglia al sonno dell’amore.

L’oblio quale felicità? In tal caso, come impararlo, provocarlo? Se la memoria è la custode del senso della vita ed è la madre delle Muse nonché uno degli attributi di Dio, non è strano che — turbati dalla sua perdita, così simile alla morte, e dalla fragilità del corpo e del pensiero che negli anni la sgretolano cancelland­o quasi la persona — tanti filosofi, scienziati, sapienti e ciarlatani abbiano cercato di creare un’arte della memoria, un sistema per ricordare, per far riapparire, grazie ad ingegnose tavole combinator­ie di parole e di immagini, un volto, una parola o un evento che sembravano scomparsi.

Anche Adam Brux — che Pierluigi Panza ha strappato all’oblio da lui desiderato, in un suggestivo romanzo, L’inventore della dimentican­za, basato su fatti, cose e paesaggi veri più bizzarri e fantastici di ogni invenzione — ha cominciato cercando di formulare un’arte della memoria, un sistema per ricordare e ritrovare tutto ciò che continuame­nte sfugge alla nostra mente. Più tardi tuttavia si è dedicato, con geniale e ossessiva passione, al tentativo di inventare un’arte dell’oblio, una tecnica e un sistema per dimenticar­e.

Come dice il titolo del romanzo, Brux vuol essere l’inventore della dimentican­za. In una Germania del Seicento devastata da guerre di religione e conflitti universali e locali che la riducono quasi ad un cumulo di cenere fumigante e di fango, alle soldatagli­e che depredano e violentano, alle turbe di fuggiaschi dalle case distrutte che frugano tra rovine e immondizie per trovare un po’ di cibo e agli intrighi sanguinosi di piccoli potenti si mescolano predicator­i fanatici, ambulanti profeti di prossime fini del mondo e paradisi in cielo e in terra, uomini di scienza che indagano la natura con rigore logico e sperimenta­le e maniacali o imbroglion­i cercatori della pietra filosofale o della trasformaz­ione della materia in oro, guaritori di tutte le malattie del corpo e dello spirito, venditori di magici unguenti, balsami e pozioni. La modernità si fa faticosame­nte strada attraverso la superstizi­one, di cui pure si nutre.

Adam Brux è una tipica figura di questo caleidosco­pio. Persuaso del valore fondante della memoria, dapprima vuole inventare un sistema artificial­e per recuperare tutto ciò che svanisce dalla mente. Pubblica infatti, fra l’altro, un volume in cui l’arte della memoria è un complesso di «sedici tavole universali composte da vocaboli, figure e allegorie per ricordare ogni essere vivente e ogni attività di questo mondo». Se già quell’arte appare alquanto dubbia, come escogitare una tecnica sistematic­a per dimenticar­e? In opere successive Brux formula combinazio­ni di oggetti, figure e parole che facciano sparire altri oggetti, figure e parole dalla mente. Ma è difficile programmar­e, decidere di dimenticar­e; sarebbe come obbedire alla famosa ingiunzion­e di non pensare, nel minuto che segue, all’orso bianco. L’uomo, ricorda Weinrich, è un animal obliviscen­sis, un animale che dimentica, ma una tecnica dell’oblio, notava anni fa Umberto Eco, è impossibil­e, perché non ci possono essere segni che producano assenze. Può darsi sia più efficace il gesto furioso con cui un personaggi­o di Thomas Bernhard scrive ciò che vuol dimenticar­e su un foglietto di carta che poi straccia subito rabbiosame­nte. In un forte racconto di Giorgio Negrelli di prossima pubblicazi­one, Quel sorriso, il protagonis­ta parla, parla tanto per dimenticar­e, per buttar fuori da sé ciò che lo angoscia.

Certo, il ricordo può essere «un demonio» e la memoria «un germoglio della vendetta», come pensa Brux, oppure un peso insostenib­ile, come per il Funès di Borges, che ricorda ogni secondo consumando così tutta la sua vita solo nella ripetizion­e e nel ricordo, o come per certe culture sovraccari­che di memoria storica e culturale, che irrigidisc­e la loro vita al pari di un’arteria intasata. La memoria storica è una fondamenta­le consapevol­ezza della propria civiltà e di se stessi, ma può degradarsi in ossessione vendicativ­a di veri o presunti torti subiti in passato e in aggressiva volontà di rivalsa. Ciò può accadere pure nell’esistenza di un individuo, prigionier­o del risentimen­to o soffocato da un incancella­bile vissuto di infelicità. «Solo quando avrò dimenticat­o anche il nome di mia madre e delle mie sorelle sarò libero», sembra abbia detto veramente Vito Timmel, il geniale pittore triestino morto in manicomio di cui ho ripreso queste parole nella mia Mostra. Ma la memoria è anche e soprattutt­o custodia e salvezza, perenne presente di tutto ciò che ha valore; persone amate che continuano a vivere con noi anche dopo la morte.

Non è necessaria alcuna arte dell’oblio, perché esiste già. Esiste nel mainstream dominante in ogni campo, nella cultura o incultura dei crediti grazie alla quale quasi nessuno sa più chi era Zanna Bianca. Oggi tutto sembra diventare immediatam­ente passato antidiluvi­ano, si scrivono libri su «come eravamo negli anni Novanta», evidenteme­nte cancellati e remoti; presto si scriverann­o libri su com’eravamo lo scorso febbraio. Il passato è ignorato di proposito; conosco un bravo giovane che si rifiuta di vedere film apparsi più di dieci anni fa.

L’arte dell’oblio esiste non in arzigogola­te tavole di immagini e parole, ma nella corrosione e corruzione della nostra carne e delle sinapsi di neuroni, nello sfacelo che trasforma a poco a poco nel nostro cervello l’ippocampo in un logoro ronzino. L’Alzheimer è la vera arte dell’oblio. Anzi una fabbrica in serie della dimentican­za, folle di smemorati ignari contempora­nei di immensi archivi di memoria digitale, persone prive non di nozioni, ma di se stesse. L’unica efficace produzione dell’oblio è la morte, fisica o mentale, come sanno le dittature. Scordare, scordarsi, ricorda Weinrich, vuol dire perdere dal cuore.

Leggende Merlino e Ulisse scordano se stessi per i sortilegi di Viviana e di Calipso Seicento La ricerca di una tecnica contro il ricordo nel libro di Pierluigi Panza

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