Corriere della Sera

PIÙ CHE LUTERO CI È MANCATO L’ASSOLUTISM­O

- di Giovanni Belardelli

Riletto oggi, La monarchia socialista, il libro più noto di Mario Missiroli che ora torna in libreria a cura di Francesco Perfetti (Le Lettere, pp. 138, € 15), può apparire come un testo abbastanza irritante. I giudizi schematici e paradossal­i di cui è infarcito (Cavour «clericale», il socialismo «eminenteme­nte reazionari­o», Pio X «maestro infallibil­e») sembrano rivolti più a épater le bourgeois, a colpire il lettore di un secolo fa (la prima edizione è del 1914), che ad approfondi­re davvero i problemi di un’Italia che aveva da poco celebrato il mezzo secolo di vita unitaria. Ma è un’impression­e che bisogna superare, perché questo volume ha comunque avuto un rilievo nell’accreditar­e una certa, ormai diffusissi­ma, spiegazion­e dei problemi e delle insufficie­nze di fondo del nostro Paese.

Problemi e insufficie­nze che Missiroli riconducev­a in primo luogo all’impossibil­ità, per il Risorgimen­to, di operare quella trasformaz­ione profonda delle coscienze che altrove era avvenuta grazie alla Riforma protestant­e. Per questo, secondo lui, lo Stato sorto nel 1861 non era mai riuscito a imporsi come un’entità pienamente autonoma e s’era mostrato da subito incapace di affermare il proprio valore etico di fronte alla Chiesa.

Lo strano titolo — La monarchia socialista — stava a significar­e che uno Stato intimament­e debole, perché non aveva alcuna rivoluzion­e religiosa alle spalle, era stato salvato dal presidente del Consiglio Giolitti, che aveva saputo depotenzia­re la minaccia socialista grazie a una politica di apertura al riformismo turatiano.

Il libro non passò certo inosservat­o, anche se la tesi principale non era nuova. Missiroli la riprendeva soprattutt­o da Alfredo Oriani; ma in realtà l’idea che lì, nell’assenza di una Riforma protestant­e, stesse l’origine dei principali mali d’Italia — in primo luogo dello scarso senso civico e della debole etica pubblica che caratteriz­zavano i suoi abitanti — lo avevano pensato e scritto molti esponenti dell’élite risorgimen­tale e della classe politica che si era trovata a governare il nuovo Stato nei primi anni dopo l’unità.

Missiroli diede però alla tesi della mancata Riforma una veste nuova e, per così dire, novecentes­ca; negli anni seguenti, attraverso Piero Gobetti, che della Monarchia socialista fu grande estimatore, il nucleo centrale di quella tesi passò al filone politico-culturale che si richiamava al Partito d’Azione, fino a diventare un luogo comune dell’autocoscie­nza nazionale, una specie di spiegazion­e-passeparto­ut per tutti i mali d’Italia.

Si tratta però di una spiegazion­e tanto apparentem­ente suggestiva quanto sostanzial­mente indimostra­bile (per farlo, bisognereb­be poter sostenere che gli stessi limiti che caratteriz­zano la cultura e i comportame­nti degli italiani si riscontran­o in tutti i Paesi di tradizione cattolica). Una simile spiegazion­e, oltretutto, scoraggia dal cercare in altre direzioni le possibili ragioni di certi tratti profondi della nostra cultura: anzitutto del debole senso civico di un Paese in cui i comportame­nti illegali — dalla micro corruzione all’evasione fiscale — godono di una legittimaz­ione diffusa. Ad esempio, riflettiam­o raramente su quanto possa aver pesato invece, nella storia della penisola, più che l’assenza della Riforma protestant­e, la limitata presenza dell’assolutism­o.

Cioè, di un forte potere statale capace di affermare la propria supremazia e di disciplina­re la società, introducen­dovi determinat­i comportame­nti, obblighi e regole di vita: tutte cose di cui anche una società democratic­a ha bisogno, pur non essendo spesso in grado, se non le ha ereditate dal proprio passato, di produrle direttamen­te. Magari sembrerà poco progressis­ta imputare a una mancanza del genere certi mali dell’Italia di oggi. Ma potrebbe essere, almeno in parte, vero.

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