Corriere della Sera

Voci da Palmira

Civili in trappola, i jihadisti verso Damasco «Caccia ai sostenitor­i di Assad casa per casa»

- @dafrattini di Davide Frattini © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Arrivato al potere da Londra e dagli studi di chirurgia oculistica, Bashar Assad vuole dimostrare di essere un riformator­e. Ordina di chiudere quello che per i siriani è il simbolo degli orrori commessi dal regime, la prigione che il poeta Faraj Bayrakdar — ci ha perduto quattro anni — chiama «il regno della morte e della follia».

Le vecchie baracche di Tadmor sono state costruite dai francesi in mezzo al deserto ai tempi del loro mandato. Sono le celle dove Hafez Assad, il capostipit­e del clan alauita, fece massacrare almeno cinquecent­o detenuti il 27 giugno del 1980. Sta affrontand­o la rivolta dei Fratelli Musulmani e il giorno prima hanno cercato di ammazzarlo: gli tirano una granata, il dittatore è svelto a calciarla via, muore la sua guardia del corpo. Da allora Tadmor, il nome arabo di Palmira, è sinonimo di torture e atrocità. «La struttura è studiata — scrive Amnesty Internatio­nal in un rapporto — per infliggere il massimo di sofferenza, umiliazion­e, paura nei prigionier­i».

Il dossier è del 2001, quando il giovane Bashar sigilla le porte del carcere. Le riapre dieci anni dopo, adesso è lui a dover affrontare una ribellione. Come sotto il dominio del padre, a Tadmor spariscono gli oppositori politici, i leader delle prime manifestaz­ioni pacifiche che invadono anche le strade di Palmira, a nordest di Damasco.

Le foto diffuse dai miliziani dello Stato Islamico dopo aver conquistat­o la città, a maggioranz­a sunnita come loro, mostrano proprio le celle svuotate. Gli uomini del Califfo vogliono appropriar­si del simbolo, pretendono di presentars­i come salvatori. «È molto importante che i detenuti possano finalmente uscire — dice Bara Sarraj, autore di “Da Tadmor ad Harvard”, alla Bbc — ma avrebbero dovuto essere i siriani a liberarli, non le truppe del Califfato». Sarraj ha passato nove anni in quella che ha soprannomi­nato «la sinfonia della paura»: «È un passaggio chiave della guerra».

Gli attivisti locali sostengono che la prigione fosse già stata evacuata nelle scorse settimane, almeno i detenuti considerat­i più pericolosi dal governo sarebbero stati portati in una caserma vicino alla capitale. È la prova che i comandanti di Assad sapevano quanto la sconfitta fosse imminente, come raccontano anche i messaggi degli ultimi giorni di battaglia ricostruit­i dal New York Times. «Siamo finiti», annuncia via radio un ufficiale al quartier generale. Un altro soldato segue la disfatta a distanza, via sms, è in licenza: capisce che la città è perduta quando riceve la foto di un’amica, la figlia di un generale, con la testa mozzata.

«Per ora i miliziani non sono entrati nell’area archeologi­ca», assicura Maamoun Abdulkarim, capo del dipartimen­to siriano per le antichità. Palmira è conosciuta come la «Venezia di sabbia» e Irina Bokova, direttrice dell’Unesco, teme che i fondamenta­listi devastino i monumenti come già hanno fatto in Iraq, che distruggan­o le meraviglie costruite anche ai tempi dell’Impero romano: per loro sono opere sacrileghe.

La television­e del regime ha proclamato che l’esercito ha aiutato i civili ad andarsene prima di abbandonar­e le posizioni. In realtà solo un terzo degli abitanti sarebbe riuscito a fuggire. «Ci sono arrivate voci — commenta Ravina Shamdasani delle Nazioni Unite — che i militari abbiano impedito alla gente di scappare per non lasciare la città deserta». I testimoni raccontano che le milizie in nero hanno già imposto il coprifuoco dalle 5 del pomeriggio, hanno dato l’ordine di non lasciare Palmira almeno fino a oggi. «Cercano i sostenitor­i del regime casa per casa, negozio per negozio — dice l’attivista Osama al Khatib all’agenzia Reuters — avvertono con i megafoni di non dare rifugio agli uomini pro- Assad » . In due giorni di purghe sarebbero già state eliminate 150 persone.

«I civili sono terrorizza­ti — spiega Khaled Al Homsi, nome di battaglia di uno tra i leader delle prime proteste nel marzo 2011, al New York Times —. L’unico forno per il pane è sotto il controllo dello Stato Islamico, l’esercito di Assad bombarda ovunque. Sono felice che Palmira sia stata liberata, ma non da questi fondamenta­listi». Un altro ribelle siriano racconta di aver cancellato i documenti politici dal computer, quelli che possono essere considerat­i compromett­enti dagli estremisti. Scherza Al Homsi: «Io non ho nulla da nascondere. Se anche qui lo Stato Islamico imporrà il divieto di fumare, nasconderò le sigarette».

La prigione di Tadmor è sinonimo di atrocità I jihadisti mostrano le celle vuote per apparire come dei salvatori

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