Corriere della Sera

Dolce e Gabbana alla Saint Martins di Londra (e i nomi dei talenti migliori finiscono sul loro taccuino)

- Paola Pollo

Un po’ come i bambini in un negozio di dolciumi. Domenico Dolce e Stefano Gabbana entrano alla Central Saint Martins School di Londra, una delle università di moda e designer più prestigios­e al mondo, con gli occhi spalancati. E a tratti persino un po’ intimiditi. Nel cortile centrale ci sono i lavori di fine corso: sedie rotte, palloni infilzati, leggii tecnologic­i, piante e corde, plastiche e pitture. Gli stilisti si fermano, chiedono, si stupiscono. L’edificio è maestoso ma ovunque entra la luce. C’è un ragazzo che va in giro con le calzette, un altro vestito come un infermiere, una tipa ha i capelli lunghi e verdi, la sua amica ha una cartellett­a lunga due metri, un giovane asiatico balla per i fatti suoi. «Che energia», non fanno che ripetere Dolce e Gabbana invitati da Fabio Piras, il direttore del master, a tenere una «Lecture» moderata da Sarah Mower, giornalist­a inglese.

«La scuola aiuta, ma è un appetizer — spiega Piras —. Poter raccontars­i e ascoltare chi lavora veramente è per i ragazzi fondamenta­le. Ogni anno arrivano sempre meno preparati è vero, perché l’uso della tecnologia porta via tempo ad altro, ma l’ingenuità con la quale affrontano il corso è la grande freschezza». Ecco allora che un’ora prima di entrare nell’aula magna gli stilisti incontrano ad uno ad uno gli studenti e li ascoltano. Domenico Dolce chiacchier­a di giacche con un ragazzo kazako. Sul manichino c’è una giacca imbastita. Lo stilista becca subito l’errore, scuce e segna. Abzal Issabekov, lo studente, osserva e ringrazia: «Ha ragione». Subito dopo il suo nome è nel taccuino della maison: «Quando hai finito fatti vedere a Milano». Lo stesso per un gruppo di ragazze, canadesi, statuniten­si che lavorano sui tessuti di maglia.

C’è un pakistano che ha fatto una ricerca sorprenden­te sulle divise militari del suo Paese: «Cercare e studiare le proprie origini e tradizioni è il lavoro più interessan­te e giusto da fare». Identità come forza, che è anche il mantra che gli stilisti sostengono nell’aula gremita di studenti e docenti: l’Italia, Milano e una sicilianit­à scoperta un paio d’anni dopo aver cominciato, nel 1984. Video e parole: le immagini dei successi, dalle sfilate alle campagne ma anche back stage nell’atelier mentre Domenico ritocca un orlo o Stefano spilla un abito. Il primo racconta che quando nacque la mamma lo mise al caldo fra le stoffe appena stirate nella sartoria di famiglia; il secondo che per lui la moda erano Fiorucci, Moncler e i Duran Duran. «Poi dopo il diploma alla Marangoni — ricorda Domenico — consultai le pagine gialle per capire dove andare. Il primo nome era Armani e mi presentai. Mi dissero che avrei dovuto telefonare. Allora uscii, entrai in un cabina telefonica e feci il numero. Poi tornai e dissi: ho telefonato. Ricordo la moquette bianca e una passatoia bianca: camminavo in punta di piedi! Fui preso da un altro Giorgio, Correggiar­i, e cominciai».

Galeotta un’altra chiamata: «Un giorno telefonai da Correggiar­i perché volevo lavorare nella moda e mi rispose un certo Domenico..». E alla domanda «cos’è la moda per voi?». La risposta più spontanea: « Fashion is love. That’s it ». Fra i ragazzi Domenico Dolce e Stefano Gabbana al tavolo da lavoro degli studenti della Saint Martins School di Londra. A sinistra, la loro «Lecture» (

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