Corriere della Sera

Ventura, quattro anni libidinosi «Da “speriamo” a “vogliamo” Così ho trasformat­o il Toro»

- Roberto De Ponti

Chi è Giampiero Ventura è nato a Genova il 14 gennaio 1948. Cresciuto nel vivaio della Sampdoria (in ritiro divideva la camera con Marcello Lippi), da calciatore è arrivato in C La carriera Ha allenato Albenga, Rapallo, Entella, Spezia, Centese, Pistoiese, Giarre, Venezia, Lecce, Cagliari (debutto in A nel 1998-99), Sampdoria, Udinese, Napoli, Messina, Verona, Pisa e Bari. Dall’estate 2011 è sulla panchina del Torino In granata Alla guida del Torino per 153 partite con 59 vittorie, 50 pareggi e 43 sconfitte, una promozione dalla B alla A, un 7° posto e un ottavo di finale di Europa League

«Di grande correttezz­a e stima, credo reciproca. Penso di avergli dato qualcosa e di aver ricevuto in cambio qualcosa, anche umanamente».

Qual è stato il punto di svolta della sua squadra?

«Siamo riusciti a cancellare la parola “speriamo” sostituend­ola con “vogliamo”. Se vogliamo possiamo, come è accaduto nel derby. Come è accaduto con l’Athletic Bilbao».

È opinione comune che le squadre di Giampiero Ventura giochino bene.

«Da una parte mi fa piacere e dall’altra mi infastidis­ce».

Perché conosce già la domanda successiva...

«Cioè come mai non ho mai allenato una grande squadra? Esatto. E incontrare presidenti che mi dicono “lei è bravo, avrei dovuto prenderla” non aiuta».

Come mai non ha mai allenato una grande squadra? «Per tre motivi». Ce li dica. «Il primo: la gente non capisce che le idee non hanno età. Si possono avere buone idee anche se non si è più giovanissi­mi, si può essere vecchi dentro anche se si è ragazzini. In poche parole: un giovane non è sempre bravissimo e un vecchio sempre da buttare». Il secondo. «Non ho capito subito, è una mia colpa, quanto fosse importante apparire, passare dai salotti e dalle trasmissio­ni tv giusti». Il terzo. «Semplice sfortuna. Quando ho cominciato ad allenare io, andavano di moda i grandi saggi alla Mazzone, oggi i giocatori che hanno smesso da un anno».

Come Inzaghi, che affronterà domani.

«Come Inzaghi. E come altri».

Granata Giampiero Ventura, alla quarta stagione sulla panchina del Torino (LaPresse)

Qual è il compito principale di un allenatore?

«Ho scelto una frase di Tom Landry, un santone del football americano, come paradigma: “il mio lavoro è far fare a qualcuno qualcosa che non vuole fare, per fargli raggiunger­e quello che vuole raggiunger­e”».

I giocatori sono davvero così? Senza voglia di fare?

«Non sempre, ma di sicuro il compito di un allenatore è di trovare la chiave d’accesso a ognuno di loro, per permetterg­li di esprimersi al meglio».

Vujadin Boskov diceva che l’allenatore è un dirigente accompagna­tore ben pagato.

«Se alleni i Messi o gli Ibrahimovi­c, sì. Se alleni giocatori normali, allora devi metterci qualcosa di tuo». Lei di suo che ci mette? «Un feroce lavoro durante la settimana. Poi, paradossal­mente, la domenica il mio lavoro è finito: conta mille volte di più quello che è stato fatto prima».

Il 4-2-4 marchio di fabbrica di Ventura è diventato con il tempo un 3-5-2. Semplice evoluzione?

«No, necessità di lavorare in

Abbiamo cambiato la mentalità: se abbiamo vinto a Bilbao e abbiamo battuto la Juve, non è più un caso Per allenare i giocatori bisogna trovare la loro chiave d’accesso: con Cerci e Quagliarel­la ci sono riuscito Incontrare presidenti che dicono «lei è bravo, avrei dovuto prenderla», non mi fa piacere, mi dà fastidio

base ai giocatori che ti mettono a disposizio­ne. I sistemi di gioco sono relativi: per me nella costruzion­e delle azioni contano il concetto spazio/tempo e la lettura delle situazioni».

Domani ritroverà Alessio Cerci, che a Torino ha fatto benissimo, fuori meno.

«Con lui avevo trovato la chiave d’accesso».

Com’è che altri allenatori non ci sono riusciti?

«Bisognereb­be chiedere a loro».

A Bari le tolsero Bonucci e Ranocchia in un colpo solo, a Torino le hanno venduto Immobile e Cerci, 35 gol in due. Com’è dover ricomincia­re ogni volta da capo?

«Sta nelle cose: se non sei una grande società, e a volte persino se lo sei, ti tocca cedere i pezzi pregiati. L’importante è programmar­e e farsi trovare pronti al dopo».

Si aspettava un Quagliarel­la così determinan­te?

«La realtà è che Quagliarel­la ha fatto meglio di quanto lui stesso si aspettasse. Tutti ricordano i gol da metà campo, pochi invece che era reduce da quasi due anni di inattività».

Ha trovato la chiave d’accesso anche per lui? «A quanto pare». Come si sente ad allenare il Torino?

«Mi sento in un’entità che ha una grandissim­a storia alle spalle, ma che deve pensare al presente e soprattutt­o al futuro. Ricordo ancora che cosa mi disse il tassista che mi accompagnò la prima volta in sede a Torino». Vuole dirlo anche a noi? «Mi disse: noi del Toro non pretendiam­o che lei vinca qualcosa, vogliamo poter tirare fuori le sciarpe dai cassetti». Missione compiuta? «Vedo tanti bambini andare a scuola con la maglia del Toro, vedo tifosi finalmente felici. E di questo sì, sono orgoglioso». Domani il Milan. «E vincendo saremmo a tanto così dall’Europa. Se vogliamo, possiamo. E chissà che magari si possa uscire da San Siro con un po’ di sana libidine addosso».

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