Ai confini della Patria
Nelle terre dove si combattè la Grande guerra c’è anche chi omaggia Francesco Giuseppe e Tito Oltre le apparenze, i segni di un’italianità profonda
PIAZZA FRANCESCO GIUSEPPE. Il sindaco pd di Ronchi dei Legionari l’ha intitolata sabato mattina all’imperatore contro cui si combatterono le guerre di indipendenza e si entrò in guerra cent’anni fa (se è per questo, in zona hanno festeggiato per anni il genetliaco di Franz Josef, con gli schützen e tutto).
NAS TITO, nostro Tito. Il presidente Sergio Mattarella, arrivato a Gorizia, è stato accolto dalla grande scritta che gli sloveni hanno prima tracciato, poi tolto, quindi ripristinato, alla faccia dell’Europa unita, a evocare l’ombra di un’altra guerra, l’occupazione titina, le foibe. La scritta troneggia sul monte accanto al Sabotino, che gli italiani nel 1916 presero in 38 minuti, con i dischi bianchi disegnati sulla schiena, per evitare che l’artiglieria amica tirasse come al solito su di loro.
Niente tricolore in provincia di Bolzano: un gesto di prepotenza dei politici di lingua tedesca; ma anche l’espressione di un senso di estraneità forse comprensibile, come ha annotato lo storico Mario Isnenghi. Incomprensibile invece il tricolore a mezz’asta a Trento, la piccola patria di Cesare Battisti, la terra per cui un secolo fa si sacrificarono i fanti contadini.
Verrebbe da chiedersi: che Paese è, quello che celebra così il centenario della sua prima grande prova? Che riesce a dividersi e pure a omaggiare il nemico (o a farsi sbeffeggiare), proprio nel giorno che ricorda quel conflitto che era meglio non fare, ma fu pur sempre il crogiolo che fuse insieme un popolo giovane e sconosciuto a se stesso?
Poi, a guardare dietro le apparenze, ad andare oltre le polemiche di cui non riusciamo a privarci, si trovano i segni di una memoria più radicata di quel che si pensi, di radici più profonde delle contingenze. Mattarella oltre alla scritta titina ha visto anche le trincee restaurate, che l’associazione Sentieri di pace ha riscoperto: le doline con gli ospedali da campo e le fosse comuni; il treno della memoria che a Redipuglia sale a Caporetto; il parco Ungaretti, dove l’attrice Alessandra Marc si è scritta sulla pelle i versi di guerra del poeta; i camminamenti scavati nella roccia del Carso, dove le schegge arrivavano a ferire e a mutilare gli uomini anche a un chilometro di distanza (e gli austriaci a volte erano a pochi metri). Ora qui dietro c’è la Slovenia: i confini tracciati dopo l’ultima guerra divisero famiglie, stazioni, ospedali, financo il cimitero: si moriva in Italia, si veniva sepolti in Jugoslavia. Qui la memoria del ’15-’18 divide ancora oggi: i sudditi italiani dell’Impero vennero mandati a morire in Galizia contro i russi, i sudditi austria- ci e slavi si batterono contro gli italiani sino all’ultimo (tranne i cechi, tra cui molti disertarono e vennero a combattere accanto ai nostri nonni contro l’imperatore). Anche a Trieste la grande celebrazione di piazza, con i vertici dell’esercito schierati, i cori alpini, i lanceri a cavallo, lo sbarco dei lagunari, il lancio dei parà e la ministra Pinotti ultima tedofora della fiaccolata, ha suscitato qualche perplessità: la città ritiene (l’ha fatto notare il sindaco Roberto Cosolini) di aver poco da festeggiare; anche se sulla festa è prevalsa la memoria, sulla gioia il ricordo.
Più ci si avvicina al Piave, più il centenario è sentito. A Udine il minuto di silenzio per i caduti, rispettato in tutti gli stadi, è stato chiuso da grida di «viva l’Italia», salite dalla stessa tifoseria che trent’anni fa inalberava lo striscione «O Zico o Austria». In Friuli l’occupazione austriaca (dall’ottobre 1917 all’ottobre 1918, da Caporetto a Vittorio Veneto) fu durissima. E sul Piave la guerra cambiò natura: non si trattava più di andare all’assalto di città in cui nessuno era mai stato, di montagne che nessuno aveva mai sentito nominare; si trattava di difendere la patria, di badare alla terra e alle famiglie; una cosa che ai fanti contadini veniva naturale. Nei paesi attorno al fiume è stata una giornata di commozione, che spesso ha coinvolto i bambini. E anche i nuovi italiani si sono accorti che ieri era una giornata speciale: come i cinesi di via Paolo Sarpi a Milano, tutti in strada a fotografare i bersaglieri con le penne di gallo. Tanti segnali che indicano un’identità più radicata di quel che si creda, e anche un desiderio di ricostruzione, il senso di un’appartenenza che fino a qualche tempo fa appariva sfilacciata e labile. Alla fine, oltre alle contraddizioni che non vanno passate sotto silenzio, anche il 24 maggio 2015 ha mostrato che gli italiani sono più legati all’Italia di quel che amano riconoscere.
Le foto ai bersaglieri Anche nella Chinatown di Milano ieri erano tutti in strada a fotografare la sfilata dei bersaglieri