Corriere della Sera

Quei genitori orfani scolastici dopo la maturità (dei loro figli)

- di Elvira Serra @elvira_serra

Finché un genitore è costretto a subirli, li vive come una iattura inferiore solo alle recidive delle malattie esantemati­che. I colloqui con insegnanti inferociti, i compiti gomito a gomito la domenica sera, le disequazio­ni che erano delle sconosciut­e durante i fecondi anni del liceo figuriamoc­i adesso che la maturità è passata da un pezzo, le noie con il prof di religione e le sfuriate per il 4 in italiano, «cos’abbiamo fatto di male per meritare un figlio del genere!». Poi succede che quel ciclo, tredici anni, si compie. L’università è un’idea, ma non ancora definitiva. E d’improvviso si viene travolti dalla sindrome di Stoccolma: la nostalgia del consiglio di classe. La depression­e del libro chiuso, diversa ancora da quella della pensione, della menopausa, della calvizie, viene quando si ha la sensazione di aver perso un ruolo, quello di guida, e la certezza che il tempo non ha mai smesso un attimo di correre. E se il columnist Joe Queenan giura sul Wall Street Journal che «grazie a Dio» quel giorno arriva e finisce lo strazio, non la pensano così mamme e papà alle prese con l’ultima campanella. «Eppure un genitore dovrebbe sentire la soddisfazi­one per aver raggiunto l’obiettivo di tirar su un individuo autonomo e pronto ad andare per il mondo, capace di cavarsela da solo», assicura lo psichiatra Claudio Mencacci. Un antidoto alla malinconia forse esiste. «Vale la pena concentrar­si sul fatto che la libertà dei figli coincide con la ritrovata libertà degli adulti. Meglio sfruttarla, allora: con una maggiore vita sociale e di relazione, sia come singolo che nella coppia. È il momento di aprirsi, non di chiudersi. E di condivider­e la sensazione di smarriment­o con chi ci sta accanto».

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