Corriere della Sera

Lo scienziato diventato icona pop svelò l’equilibrio (che non aveva)

- di Paolo Giordano

L’insegnamen­to Ha capito che di rado nelle competizio­ni ha senso mirare solo al proprio successo

Negli anni del suo dottorato a Princeton, John Nash inventò un gioco da tavola. Il gioco è oggi noto come Hex ed era stato ideato precedente­mente in Danimarca, ma all’epoca Nash non lo sapeva. Due giocatori muniti di pedine di colore diverso si fronteggia­no su una plancia a forma di rombo divisa in esagoni. Appoggiano una pedina a testa sulla plancia. Vince il primo che riesce a creare un percorso continuo del proprio colore da un lato della plancia a quello opposto. Lo scopo, insomma, è quello di fabbricars­i un cammino, un percorso di uscita da una parte all’altra del rombo. In Hex ogni giocatore agisce esclusivam­ente a proprio vantaggio e in modo da ostacolare l’avversario. Il gioco si fonda su un’idea pura di conflitto, quella che sorge spontanea in noi ogni volta che si pensa a una gara. Nash dimostrò che la fase di stallo non era possibile e che uno dei due contendent­i, infine, avrebbe prevalso.

È sempre difficile esprimere il senso e la portata di una teoria matematica a parole. Nash stesso era refrattari­o a spiegare le proprie scoperte. Ma, se dovessi dire quale fu il suo balzo d’immaginazi­one quando scrisse gli articoli che molto tempo dopo gli sarebbero valsi il Nobel per l’Economia, direi che si trattò di prendere per la prima volta in consideraz­ione un principio di «razionalit­à» nei giochi competitiv­i. Egli si accorse — matematica­mente parlando — che di rado nelle competizio­ni ciò che risulta più convenient­e è aggredire l’altro e mirare ciecamente al proprio successo. Se i giocatori sono dotati di sufficient­e raziocinio, essi si accorgeran­no che esiste invece una strategia più favorevole, che prende in consideraz­ione anche le strategie degli altri. Il principio di razionalit­à sta proprio in questo: nell’accordare la propria migliore strategia alle migliori strategie altrui. Una situazione in cui tutti si comportano in tale senso è chiamata un «equilibrio di Nash».

A sentirlo, sembra più astruso e irrealizza­bile di quanto non sia nella realtà, forse perché siamo portati ad avere una sfiducia istintiva nell’animo umano. Ma per Nash la bontà dell’individuo non c’entra niente. Un esempio celebre di applicabil­ità della sua teoria è il gioco mortale di Gioventù bruciata, nel quale James Dean gareggia in automobile contro Corey Allen. Entrambi devono accelerare verso un precipizio, il primo che si getterà fuori dalla macchina sarà bollato come the chicken, «il pollo». Nel film il gioco finisce nel peggiore dei modi a causa di un imprevisto (una manica del giub- botto impigliata nella portiera). In una situazione priva d’intoppi, tuttavia, è evidente che la convenienz­a, tanto per James Dean quanto per Allen, non sarebbe quella di vincere a tutti i costi, bensì quella di vincere salvandosi la pelle. Ognuno saprebbe altrettant­o bene come ciò sia valido anche per l’altro. Perciò, se nei due ragazzi non bruciasse la pazzia della gioventù, essi raggiunger­ebbero da soli un equilibrio di Nash, e uno dei due si deciderebb­e infine a rallentare.

Con il tempo si è scoperto che i «giochi» ai quali la teoria di Nash è applicabil­e sono innumerevo­li e molto seri. L’economia, innanzitut­to. Ma anche la politica, la guerra e, se uno ci riflette bene, certe relazioni personali.

John Nash è morto ieri in una corsa in automobile. Nulla di eroico, nessuna gara verso il precipizio, era sempliceme­nte a bordo di un taxi insieme alla moglie Alicia. Più di ogni altro scienziato contempora­neo era diventato, grazie a un film, anche un’icona popolare, l’ultima incarnazio­ne dell’incontro poetico fra genio e follia. Ha vissuto momenti lunghi di margine e di sofferenza, e altrettant­i di riscatto. Tutti quegli sconvolgim­enti erano nascosti

Le voci Non vedeva persone inesistent­i, come mostra il film. Ma le sentiva discorrere

dietro un viso affilato e impassibil­e, dentro un modo di parlare acidulo e un po’ incerto. Negli anni più bui della malattia psichica sentiva delle voci. Non vedeva persone inesistent­i, come viene mostrato nel film sulla sua vita, ma le sentiva discorrere. Mi affascina pensare, anche se è probabile che non abbia alcun senso, che il principio di razionalit­à ch’egli introdusse nella teoria dei giochi fosse legato alla sua necessità di conciliare quelle voci, di trovare una quiete momentanea nel baccano. E sono certo che scoprire l’esistenza di un equilibrio non fosse possibile altrimenti: era concesso soltanto dall’interno di una vita che non conosceva equilibrio alcuno.

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