Corriere della Sera

I miei 11 giorni nutrendomi di Soylent, sostitutiv­o del cibo Nessun effetto collateral­e, tranne la perdita di identità

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vostro corpo non si sarà adattato».

Viene da chiedersi perché mangiarlo. Rhinehart nel suo blog lo spiega così: «Il cibo è il fossile dell’energia umana», cioè un meccanismo estremamen­te dispendios­o e inefficien­te per accumularl­a. «Non sopportavo il tempo, i soldi, l’impegno per comprarlo, prepararlo, consumarlo e poi pulire che richiedeva». Per lui l’«ottimizzaz­ione» dei processi di vita è un’ossessione, tanto che usa lo stesso approccio all’abbigliame­nto: alterna due paia di jeans e delle magliette di poliestere che compra su Amazon, indossa per qualche settimana e poi regala. Se prendono un cattivo odore, le mette per un po’ nel freezer: «Bastano un paio d’ore e scompare — ha raccontato al New Yorker — nel frattempo mi copro con un asciugaman­o».

In effetti, la praticità del Soylent è innegabile: è facile da portare con sé e si può bere davanti al computer o durante una riunione senza dover interrompe­re il lavoro. Peccato che chiunque incontri mi dica che ci sono modi migliori per dimagrire. A niente serve spiegare che non è la sua funzione, noi italiani lo «rileggiamo» subito come una dieta: è l’unica cosa che ai nostri occhi possa giustifica­re la rinuncia a mangiare. Per noi il cibo è piacere, storia, tradizione, affetti. C’è un solo ideale per il quale riusciamo a privarci di tutto questo ed è comunque «estetico»: la bellezza del corpo. Come per la moda, la praticità è l’ultimo dei nostri pensieri.

Dopo dieci giorni di beverone gli effetti collateral­i sono scemati. Berlo di fronte al pc è diventato un automatism­o. Il mio peso è rimasto sostanzial­mente stabile e fisicament­e mi sento bene. I giorni più difficili sono quelli in cui non lavoro e lo sposto a pranzo per garantirmi almeno una cena in compagnia. Il Soylent è di una noia mortale. A fine pomeriggio, con la sensazione di avere un buco al posto dello stomaco mi avvento sull’aperitivo (il liquido sazia perché lo occupa velocement­e, ma poi altrettant­o velocement­e lo lascia vuoto). L’undicesimo giorno rinuncio del tutto al cibo e lo sostituisc­o con il beverone. Non riesco a non pensare a una ricetta del 1891 di Pellegrino Artusi: i muscoli (le cozze) ripieni. Sono l’antitesi della praticità: una lunga preparazio­ne per rendere più nutriente un alimento che sarebbe buono di per sé. Oggi le vedo come un gesto di poesia in cucina.

Nella nostra società, in cui la fame di massa non è più un problema, il cibo è diventato un modo per dire chi siamo: colti gourmet, etici (vegetarian­i e vegani), salutisti, cultori del corpo (con diete o integrator­i), cosmopolit­i amanti della cucina «globish». Il Soylent occupa la casella della nuova efficienza digitale. «Ma così riduce l’alimentazi­one, che è cultura, desiderio e socialità, a pura nutrizione, una funzione fisiologic­a — nota l’antropolog­o Marino Niola, autore di Homo Dieteticus (Il Mulino) —. E chi se ne nutre diventa mera forza lavoro».

Se l’uomo è ciò che mangia, il Soylent è la cancellazi­one dell’umano.

Cosa manca Mangiare non serve solo a darci energia. È un piacere, e un modo per dire chi siamo

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