Corriere della Sera

Aztechi, l’eclissi di uno splendore

Un volume curato da Alessandro Lupo e Luisa Pranzetti per Mondadori raccoglie le testimonia­nze degli spagnoli che raggiunser­o il Messico Usi, costumi, religione: non manca nulla. Neppure lo sgomento degli sconfitti

- di Pietro Citati

Civiltà e religione degli Aztechi, a cura di Alessandro Lupo e Luisa Pranzetti (nei Meridiani Mondadori) è un libro straordina­rio, che raccomando a un numero vastissimo di lettori. I due curatori hanno scelto brani dei molti scrittori spagnoli che hanno rappresent­ato la civiltà del Messico e le sue vicende, da Bernal Díaz del Castillo a Hernán Cortés, da Bartolomé de las Casas a Andrés de Olmes, da Juan de Tovar a Bernardino de Sahagún, da Diego Durán a José de Acosta; e hanno costruito un libro ricco e complesso, che raffigura tutti gli aspetti del mondo azteco. Nulla manca: né la storia né la religione né la natura né la medicina né le arti né i costumi. L’impression­e è fortissima: questo mondo risorge davanti a noi, in tutta la sua potenza, ricchezza e meraviglio­sa immaginazi­one. Ci sembra di vedere gli Aztechi che sacrifican­o e vengono sacrificat­i, gli alberi, le città, i laghi, le piume degli uccelli. Tutto si agita e si muove: spera, dispera, combatte, resiste, fino a quando sovrani e popolo vengono massacrati.

Lo sguardo che vede è quello degli spagnoli. Nulla potrebbe essere più straordina­rio: da un lato, essi odiano, disprezzan­o, cancellano la civiltà e gli dèi aztechi; dall’altro, amano quello che stanno massacrand­o. Poche pagine di viaggiator­i hanno il fascino, la curiosità, il divertimen­to, con cui la vita degli indios viene alla luce. La conquista spagnola è sacra, opera di Dio: ma è anche una nequizia miserabile, una sventura, un trionfo del diavolo che sommerge nell’abisso una delle maggiori civiltà del mondo. Il Dio della Bibbia benedice gli spagnoli: mentre gli dèi degli indios, che forse hanno qualche rapporto col Dio della Bibbia, abbandonan­o il loro popolo. «Che accade ora, Signore nostro? — scrive Bernardino de Sahagún a nome degli indios —. Cosa avete determinat­o nel vostro petto divino? Avete forse determinat­o di abbandonar­e del tutto il vostro popolo e la vostra gente? Avete davvero deliberato che perisca per sempre e non resti memoria di esso nel mondo, e là dove sorgono città vi siano selve boscose e desolate petraie?».

Con meraviglia e orrore, gli spagnoli contemplav­ano la moltitudin­e proliferan­te degli dèi aztechi. Tutte le creature potevano essere dèi: gli indios adoravano le farfalle, le lucertole, le pulci, che scolpivano con estrema precisione e in grandi dimensioni. Veneravano il sole come l’Essere più potente e gli avevano dedicato il tempio più grande e sontuoso di Messico. Verso gli dèi, gli esseri umani erano in una condizione perenne di debito: un tempo erano stati generati da loro e ogni giorno venivano nutriti da loro; e quindi gli uomini dovevano placare gli appetiti divini, restituend­o almeno parte dell’energia celeste, e offrendo il proprio cuore e il proprio sangue. Gli spagnoli comprendev­ano questa incessante gratitudin­e degli indios, non il sacrificio di sé stessi: secondo loro, Gesù versava il proprio sangue per gli uomini, non gli uomini per il Signore.

Anche per gli indios, il mondo era il luogo della caduta, e i sacerdoti cristiani dovevano ascoltare con profonda partecipaz­ione le parole che le levatrici dicevano ad ogni neonata. «Signora mia amatissima, siate benvenuta. Avete durato fatica. Vi ha inviato quaggiù il vostro amatissimo Padre, il Dio creatore e artefice che è in ogni luogo. Siete venuta in questo mondo, dove i vostri genitori vivono con pene e fatica, dove vi sono calore senza misura, venti e gelo, dove non vi è piacere né gioia, ed è luogo di travagli, stento e privazione. Non sappiamo che cosa portate con voi, né come sia la vostra fortuna, se portate qualcosa che ci darà gioia. Non sappiamo se riuscirete. Non sappiamo se avete qualche merito, o se invece siete nata come una spiga di mais ammuffita, che non serve a nulla. Gioiamo del vostro arrivo, amatissima fanciulla, pietra preziosa, ricco piumaggio. Siete giunta, finalmente. Risanatevi e ristoratev­i». dalle aquile reali alle aquile più piccole: uccelli di mare e di lago, che venivano nutriti con il cibo al quale erano abituati. Essi avevano i colori più diversi: i più ricchi e sontuosi piumaggi: cinque colori; verdi, rossi, bianchi, gialli ed azzurri. E poi i pappagalli che, al momento opportuno, venivano spennati e poi si impennavan­o di nuovo. Nelle case c’era una grande vasca di acqua dolce, sulla quale volava un uccello dalle zampe altissime, con il corpo, le ali e la coda di colore rosso.

Gli artigiani aztechi facevano con le piume tutto quello che un eccellente pittore spagnolo faceva con i pennelli. Quando videro i quadri spagnoli, gli artigiani indios ebbero occasione di mostrare la vivacità del loro intelletto, l’acume e la prontezza delle loro facoltà e dei sensi esteriori e interiori. Disponevan­o e incollavan­o amorosamen­te le piume: le collocavan­o in modo tale che, guardandol­e da un lato, parevano dorate, senza che ci fosse oro: oppure rivelavano riflessi verdi, senza che ci fosse verde, o rossi senza che ci fosse rosso. Gli artigiani guardavano le loro opere ora al sole, ora all’ombra: ora di notte, a volte con poca e a volte con molta luce, oppure di traverso e al rovescio.

I nobili aztechi indossavan­o mantelli di piume color fulvo, di grande pregio, con il volto di un mostro o di un dio, e sopra farfalle intessute di bianco. In guerra indossavan­o una calotta molto colorata, con oro e, attorno alla calotta, una corona di ricche piume, nel mezzo della quale spuntava un ciuffo di piume preziose chiamate quetzal. Anche lo scudo era fatto di piume: era rotondo, e portava nel centro un quadrato d’oro.

Nei palazzi di Montezuma e dei nobili c’erano grandi giardini fioriti: alberi odorosi, fiori profumatis­simi, erbe medicinali, disposti in perfetto ordine, con viali, vasche e stagni d’acqua artificial­e, provviste di canali per l’entrata e l’uscita dell’acqua, dove aleggiavan­o minuscoli uccellini. Gli indios amavano moltissimo i fiori: li disponevan­o in vasi nelle loro case, li offrivano ai re, signori, ambasciato­ri, dignitari, e specialmen­te li consacrava­no agli dèi, sia nei templi pubblici che privati. La civiltà azteca sembrava consistere tutta di queste piume e di questi fiori; e dal ricordo scompariva il sangue, che dedicavano agli dèi.

Chi usava piume e fiori erano sopratutto gli artigiani, gli innumerevo­li artigiani, che percorreva­no alacrement­e le strade del Messico: argentieri, cesellator­i d’oro e di ogni altro metallo fuso, intagliato­ri, tessitrici. Molti costruivan­o, con foglie rilegate o piegate, libri, nei quali veniva custodito il computo del tempo, la conoscenza dei pianeti, degli animali, dei fenomeni naturali, delle medicine. Disponevan­o in ordine gli eventi di ciascun anno, mese, giorno, ora: ricordavan­o le genealogie, i confini, le leggi, i riti, i sacerdoti; e infine c’era chi si avventurav­a, per usare un’ambiziosa parola occidental­e, nella filosofia.

La carta veniva ottenuta dalle foglie di agave, messe a macerare nell’acqua, e preparate in strisce molto lunghe e strette: i colori erano estratti dalle foglie delle piante, dai fiori, dai frutti e dalle terre minerali. La lingua messicana dominante, conosciuta e parlata dappertutt­o, era secondo gli spagnoli bellissima: addirittur­a superiore al latino e al greco; aveva una grande ricchezza di vocaboli sia per esprimere gli oggetti materiali che i concetti spirituali, e quindi i più alti misteri cristiani. Per ordine dei sacerdoti spagnoli, che fiutavano dovunque il sapore di Satana, quei codici pittografi­ci vennero arsi; e questa sconsidera­ta distruzion­e fu uno dei maggiori danni arrecati alla nuova Spagna. Il paradosso volle che gli stessi missionari francescan­i, che avevano fatto bruciare i codici, dedicasser­o tutte le loro energie alla conservazi­one della cultura azteca.

In tutte le città, vicino ai templi, c’erano grandi case chiamate case del canto, dove risiedevan­o i maestri di danza e di canto: essi svolgevano la sola attività di insegnare a danzare, a cantare, a suonare. Tutto avveniva con estremo rigore: i fanciulli partecipav­ano con fervore al loro serio gioco; e sapevano che qualsiasi mancanza avreb-

Una civiltà raffinata tutta intenta a placare i suoi dei La annientaro­no conquistat­ori affascinat­i e feroci

be avuto la forza di un crimine di laesae maiestatis. C’erano canti diversi: alcuni calmi e gravi, ballati con grande solennità e compostezz­a in occasione delle maggiori solennità; altri, più brillanti, venivano chiamati «balli degli amanti».

Il tempo era scandito in cicli di 52 anni. In una notte del 1506, sotto il regno di Montezuma II, gli Aztechi attesero la fine dell’ultimo ciclo. Tutto dipendeva dagli avveniment­i celesti. Se la stella Aldebaràn avesse prolungato la sua corsa nello zenit del firmamento, il cielo e il mondo avrebbero proseguito il loro cammino. Ma se Aldebaràn non fosse apparsa, sui laghi e le montagne di Messico sarebbe scesa la fine. Per scongiurar­e questo pericolo, veniva compiuto un immenso rito collettivo di rinnovamen­to. I messicani spensero ogni fuoco, distrusser­o il vasellame, gli attrezzi domestici e le vesti: quando giunse la notte, in cui dovevano accendere il nuovo fuoco, aspettaron­o di vedere cosa sarebbe successo; se il fuoco non si fosse riacceso, la notte sarebbe stata perpetua, il sole non sarebbe mai più spuntato, e avrebbe avuto fine il genere umano. Ma, ancora una volta, in quel giorno del 1506, il fuoco si riaccese, e il mondo continuò la sua vita.

Qualche anno dopo ci furono i presagi. Nella notte, Montezuma II vide una cometa fiammeggia­re sopra la capitale: sembrava una spiga di fuoco: egli convocò gli astrologi, chiedendo loro un’interpreta­zione; e, alle loro risposte elusive, li fece uccidere. Il tempio di Huitzilopo­chtli bruciò. L’acqua del lago di Messico si agitò senza che alcun vento spirasse, ribollendo ed ergendosi a grande altezza: si udì una voce di donna che piangeva e singhiozza­va, dicendo: «Oh, figli miei, ormai siamo perduti per sempre! Dove potrò portarvi? Dove potrò nasconderv­i?». Montezuma II vide in sogno un uccello grigio, simile a una gru, che portava sul capo un diadema rotondo a forma di specchio, diafano e trasparent­e, dove si rifletteva una moltitudin­e di guerrieri. Ebbe timore: paventava un orribile futuro e chiedeva agli indios di comunicarg­li i loro sogni, per intraveder­e meglio cosa sarebbe accaduto.

Gli uomini intravisti nello specchio giunsero sulle rive di Messico: nel 1518, Juan de Grijalva; mentre Hernán Cortés sbarcò il 21 aprile 1519, con undici navi e cinquecent­o soldati, sulla costa di Vera Cruz. Gli spagnoli non sapevano di essere spiati ogni momento dagli informator­i di Montezuma, che scorsero le navi con le vele spiegate, animali mai visti come i cavalli, armature simili alla pietra, barbe colore del fuoco, Cortés vestito di nero, le colubrine e le bombarde. Quando gli informator­i tornarono a Messico, l’inquieto Montezuma diede ordine ai pittori di corte di dipingere la scena che aveva interrotto il silenzio del Golfo. Nessuno aveva mai visto nulla di simile. Montezuma ne ebbe timore: «Ne ebbe infinito sgomento e ne restò come atterrito e fu squassato dal pianto e proruppe in lamenti». Interrogò le leggende del popolo, e credette di comprender­e che l’uomo vestito di nero, circondato da una moltitudin­e di seguaci, fosse il dio Quetzalcoa­tl, il «Serpente Piumato», che ritornava tra il popolo che tempo prima aveva abbandonat­o.

Montezuma aveva vissuto fino allora come un greco o un romano, sotto il segno di molti dèi, conciliand­o la sua fedeltà a Quetzalcoa­tl, il dio della famiglia materna e dei sacerdoti, con la fedeltà a tutti gli altri dèi messicani. Ora, improvvisa­mente, era posto di fronte a una scelta tremenda. Cosa doveva fare? Prendere le parti del suo dio ritornato, che veniva a sconvolger­e il fragile equilibro del mondo azteco? O difendere Messico? Comprese che non appartenev­a a nessuno; e non poteva combattere Quetzalcoa­tl né abbandonar­e Huitzilopo­chtli o Tezcatlipo­ca. Così la sua condotta fu un solo intreccio di ambiguità, di contraddiz­ioni, di incertezze, di sospension­i, di rinvii. Nel fondo del cuore sapeva che tutto quello che faceva era inutile. Quello che gli astri avevano deciso si sarebbe verificato. Lui non poteva che attendere passivamen­te la volontà del cielo.

Il 9 novembre 1519, gli spagnoli giunsero a Messico. Un gran corteo di nobili, coi mantelli multicolor­i, un fulgore di piume ed ornamenti in oro, venne loro incontro. Quando si fermarono davanti a Cortés, ciascuno toccò la terra con una mano e la baciò. Poi Cortés giunse davanti a Montezuma e gli disse: «Sei forse tu? Sei proprio tu? È vero che sei Montezuma?» L’imperatore gli rispose: «Sì, sono io». Poi si alzò in piedi per riceverlo, chinò la testa e gli disse: «Signore, ti sei affaticato, ti sei stancato, e ora sei giunto alla tua terra. Sei arrivato alla tua città. Sei venuto a sederti sul tuo trono. Coi miei occhi vedo il tuo viso e la tua persona. Sono giorni che aspettavo questo momento. Sono giorni che il mio cuore guardava nella direzione da cui sei giunto. Tu sei uscito dalle nuvole e dalle nebbie, dal luogo nascosto a noi tutti. Sii il benvenuto. Ora riposa. Qui c’è la tua casa, qui ci sono i tuoi palazzi».

Cortés fece imprigiona­re l’imperatore azteco e lo mise in ceppi. Montezuma accettò di venire battezzato. Intanto i messicani elessero un nuovo re, assediando gli spagnoli nel loro palazzo. Cortés fece salire Montezuma su una terrazza: l’imperatore fece segno agli Aztechi di fare silenzio perché voleva parlare con loro. Allontanò da sé lo scudo che lo proteggeva, e ingiunse agli Aztechi di non fare del male agli spagnoli perché egli così ordinava. I messicani lo insultaron­o, imputandog­li di essere divenuto succube degli spagnoli: egli si era accordato con loro per mettere a morte i più valorosi e potenti signori aztechi. Non lo riconoscev­ano più come signore. Prima che Montezuma potesse ripararsi dietro lo scudo, venne lanciata una pietra contro di lui, che lo colpì sulla fronte e lo uccise.

L’anno dopo Cortés decise di radere al suolo la città che aveva tanto amato. Ordinò ai soldati di distrugger­e tutte le case: di spianarle, di colmare i canali, e di trasformar­li in una desolata terraferma. L’avanzata continuò, come un incubo, la notte e il giorno, ritmata dal terribile rullo dei tamburi spagnoli e dal suono sacrifical­e dei corni aztechi. Sul lago cessò improvviso ogni rumore. Non più fracasso di tamburi, di corni e di trombe, non più colpi di fucile e di cannone, o strepiti e urla di combattent­i: si spense ogni voce; e un silenzio pauroso cadde sopra gli dèi morti, i templi, la piazza una volta così animata, i giardini, le piume di Messico.

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