Corriere della Sera

Il contagio del populismo

Mercato da aprire Ancora irrisolta la questione dei grandi azionisti, che per legge devono cedere le partecipaz­ioni superiori al tre per cento L’evoluzione? A rilevarle potrebbe essere lo stesso istituto di via Nazionale

- Di Massimo Franco

Dopo la Grecia, la Spagna: l’europopuli­smo, sempre più spesso, conquista posizioni di governo. La ricetta velleitari­a e fumosa di questi movimenti accelera il pericolo che la crisi dei Paesi mediterran­ei porti a un’Europa non a due velocità, ma a due «classi».

Caro direttore, oggi all’assemblea annuale, nel discorso sullo stato dell’economia, sarebbe bene se il governator­e battesse un colpo, anche leggero, sul capitale della Banca d’Italia. Che non corrispond­e ancora alla norma. L’argomento ha un suo rilievo: Intesa San Paolo e Unicredit (ma anche in misura assai minore Generali, Inps e Carige) rischiano di dover svalutare le loro quote della banca centrale per 5 miliardi. Secondo il decreto Imu-Bankitalia, convertito in legge ai primi del 2014, nessun «azionista» può detenere più del 3% dell’istituto di via Nazionale. Intesa ne possiede il 44%, Unicredit il 22%. Hanno tempo fino ai primi del 2017 per vendere le eccedenze ad altre banche e assicurazi­oni, fondazioni bancarie, casse previdenzi­ali e fondi pensione italiani. Passato il termine, le quote in eccesso perdono il diritto al dividendo e i quotisti sarebbero costretti a svalutare quanto, all’indomani del decreto, avevano rivalutato, pagando imposte reali, per rafforzare il patrimonio. Una beffa da scongiurar­e.

Sarebbe stato più semplice abrogare la norma della riforma Tremonti che imponeva ai quotisti di vendere al Tesoro. Certo, sarebbe sopravviss­uto un conflitto d’interessi già più volte denunciato: i quotisti, tranne l’Inps, sono soggetti vigilati proprietar­i del vigilante. Ma trattasi di un conflitto puramente estetico non avendo i vigilati potere sul vigilante. Oppure, si sarebbe potuta applicare la norma Tremonti. Nell’eurozona, le banche centrali appartengo­no in genere al Tesoro. Legge e trattati ne garantisco­no l’indipenden­za. Il Tesoro italiano avrebbe pagato un prezzo politico: basso, se si fosse limitato ad applicare la norma; più alto, se avesse voluto usare il capitale in eccesso della Banca d’Italia per finanziare in capo alle banche quotiste la costituzio­ne di una bad bank per smobilizza­re i crediti deteriorat­i e l’avvio di una banca di credito industrial­e capace di finanziare un nuovo ciclo di investimen­ti, una banca privata ad azionariat­o da riequilibr­are anche con il concorso di investitor­i internazio­nali.

Il governo Letta, nel disinteres­se del Pd neorenzian­o, scelse una terza via che, come previsto, si sta rivelando di ardua attuazione. Il capitale della Banca d’Italia venne rivalutato a 7,5 miliardi. I quotisti ora sperano di incassare l’equivalent­e della rivalutazi­one vendendo le quote. E però, finora, questi titoli negoziabil­i non sono mai stati negoziati. Il perché è presto detto: questi titoli possono rendere fino al 6% del capitale, non oltre. Oggi è tanto, domani potrebbe essere poco o pochissimo in caso di rialzo deciso dei tassi. La banca centrale, poi, è un istituto di diritto pubblico: i quotisti non contano nulla, ed è bene che così sia. Le quote, insomma, sono un titolo atipico, non assimilabi­le né a un’azione né a un’obbligazio­ne. Per questa ragione, il mercato delle quote non è partito. Del resto, i potenziali acquirenti hanno i loro vincoli. I fondi pensione investono solo lo 0,8% del loro patrimonio (130 miliardi) in azioni italiane. Il patrimonio delle casse previdenzi­ali (60 miliardi) è impegnato in fondi di ogni genere, talvolta discutibil­i, spesso legati al mattone. Dovendo diversific­are, non c’è molto spazio per le quote. Le banche e le assicurazi­oni? Certo, ma non possono avere titoli illiquidi. Restano le fondazioni, che fin dal 1999 potevano acquisire quote della banca centrale, ma non l’hanno mai fatto.

Le fondazioni devono vendere le azioni delle banche d’origine detenute in eccesso rispetto ai limiti fissati dal fresco protocollo tra la loro associazio­ne e il governo: 7 miliardi di incasso potenziale, buoni per entrare nel risiko delle popolari destinate a diventare Spa ma pure per rilevare quote della banca centrale. In teoria. In pratica, le fondazioni ricche sono poche e non possono avere più del 3% della banca centrale. Senza contare che le loro gestioni finanziari­e, restando liquide, rendono parecchio di più del 5-6% delle quote. Vedi Cariplo.

In altri tempi, quando al governator­e bastava alzare il sopraccigl­io, gli assetti della Banca d’Italia sarebbero stati sistemati subito. Oggi, la cessione di sovranità a Bce, Eba ed Eiopa su moneta e vigilanza e il silenzio del ministero dell’Economia, che sorveglia le fondazioni, indebolisc­ono la moral suasion di palazzo Koch.

Un paracadute, tuttavia, esiste: la Banca d’Italia rileva le quote invendute e se le tiene per ricollocar­le, ma senza scadenza. La legge lo consente, ma sarebbe proprio quell’acquisto di azioni proprie che il governo ha sempre negato fosse la conclusion­e del percorso. Una conclusion­e imbarazzan­te per due ragioni: a) allora era proprio vero che la rivalutazi­one monetaria delle quote serviva per sostenere due banche e, attraverso il prelievo fiscale connesso, per pagare la cancellazi­one dell’Imu, avvalorand­o il sospetto di un aiuto di Stato; b) rilevando le quote, la Banca d’Italia si troverebbe in posizione di autocontro­llo, e dunque se ne dovrebbe rivedere la governance. Forse, un mercato delle quote si aprirebbe se il capitale della banca centrale fosse suddiviso in poche quote ordinarie, che votano il bilancio, e in molte quote privilegia­te, che non votano ma hanno un rendimento garantito com’è stato per anni alla Cassa depositi e prestiti.

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