«Devo il Gran Prix ai miei familiari uccisi nel lager»
«Avevo motivi personali per fare questo film», dice László Nemes. Ha girato la sua opera prima, Il figlio di Saul, sul tema dei temi, l’Olocausto, ambientandolo dove fu uccisa parte della sua famiglia: Auschwitz. Ha caricato il peso della storia su un attore non professionista, uno scrittore che in Ungheria ha pubblicato raccolte di poesia, Géza Röhrig. Questo outsider ha vinto il Gran Premio della giuria a Cannes (il film uscirà il Giorno della Memoria). Con un nome così, László Nemes potrebbe benissimo essere uno dei piccoli grandi eroi de I ragazzi della via Pal; potrebbe essere scambiato per Nemecsek, nella guerra tra bande dei ragazzini ungheresi di fine 800. Anche lui, come Nemecsek, è biondo, magro, anche lui un soldato semplice promosso capitano: erano quattro anni che Cannes non ospitava un debuttante in gara.
È un biondino di 38 anni che ne dimostra molti di meno. Vive in Francia, i suoi modelli sono Antonioni e Kubrick. È come se avesse portato un fiore su una tomba inesistente, quella dei suoi avi sgominati ad Auschwitz… «La macchina da presa segue ossessivamente, con i primi piani o di spalle, il mio protagonista. Ho cercato un singolo punto di vista, ho drasticamente ristretto l’orizzonte, non volevo la totalità anche se la scena corale in cui i condannati si avviano nudi verso la morte è stata definita una bolgia dantesca. Volevo solo la prospettiva umana».
Uomo senza destino che fa parte dei Sonderkommando, l’unità incaricata dai nazisti di prendere i cadaveri dopo che entravano nei forni crematori, e doveva spalarne le ceneri. «Godevano di momentanei piccoli privilegi, in pochi mesi venivano eliminati a loro volta». I nazisti chiamavano «pezzi» i cadaveri dei campi di concentramento. Corpi ammassati, bisognava ripulire le camere a gas in fretta. Solo che un giorno crede di aver visto il corpo del figlio, di cui non si era mai occupato, e vuole seppellirlo, dargli dignità, trascurando il tentativo di fuga degli altri prigionieri, vittime come lui. Mi sono ispirato a raccolte di testimonianze sui Sonderkommando che erano state nascoste nel 1944. Poi ho fatto molte ricerche. Ho cercato di allontanarmi da uno dei tanti film sulla sopravvivenza, che è un’enorme bugìa, è l’eccezione (anche se Schindler’s list è un grande film). E non volevo mostrare troppo, o fare spettacolo, ho lavorato costantemente contro il concetto di bellezza. Spero che questo film sia utile per provocare una discussione in Ungheria attorno alle zone oscure del passato. I traumi dell’Olocausto sono ancora qui, accanto a noi».