Corriere della Sera

SE LA SCUOLA TRASCURA I SUOI «CLIENTI»

Riforme Renzi ha provato a replicare il modello usato con le imprese. Ma il sistema dell’istruzione non è un’azienda e pensa purtroppo più ai suoi dipendenti che agli studenti Va reso trasparent­e il valore della formazione sul mercato

- meritocraz­ia.corriere.it di Roger Abravanel

Matteo Renzi ha riformato la scuola secondo lo stesso principio applicato alle aziende per l’articolo 18. Ma la scuola non è un’azienda. E non perché la cultura non è un business, ma perché la scuola italiana non si preoccupa dei suoi clienti, gli studenti.

La logica di Matteo Renzi applicata alla riforma della scuola è la stessa del Jobs act: eliminare (o almeno ridurre) le ingiustizi­e a danno dei lavoratori precari, ma allo stesso tempo dare più potere ai loro capi (imprendito­ri nelle aziende, presidi nelle scuole) nella selezione della forza lavoro: gli imprendito­ri possono licenziare chi lavora male e i presidi assumere chi insegna bene.

È chiaro che i sindacati protestano, come hanno protestato per l’articolo 18. Il presidecap­o (lo hanno chiamato in tutti i modi: preside-sindaco, preside-sceriffo, ma in realtà il concetto è sempliceme­nte quello del capo che si sceglie i collaborat­ori) non piace. La riforma dell’articolo 18 minaccia l’inamovibil­ità del lavoratore (almeno quello dipendente a tempo indetermin­ato delle grandi aziende) e la buona scuola minaccia l’insindacab­ilità dell’insegnante.

Ma la buona scuola, se anche non piace ai sindacati, è almeno una buona riforma per i «padroni» della scuola, che sono poi tutti gli italiani? Purtroppo molto poco.

Perché un’impresa privata ha l’imperativo di servire bene i suoi clienti, se no scompare, e per questo fine l’imprendito- re ne sceglie i capi. Se questi non sanno organizzar­e l’azienda per fornire un prodotto valido, l’imprendito­re li cambia o l’azienda fallisce. Se la legge dà loro più potere, i padroni delle aziende possono aspettarsi che lo sfruttino bene. Altrimenti vale quanto detto prima, o li cambiano o l’azienda salta.

Nella scuola il padrone, cioè lo Stato, si è sempre interessat­o più dei dipendenti (gli insegnanti) che dei suoi clienti (gli studenti). Anche perché i suoi clienti non si sono mai dati molto da fare. Non protestano se il servizio è pessimo, cioè se gli studenti dopo la scuola non sono preparati al lavoro, come è il caso in Italia più che in tutti gli altri Paesi occidental­i. Quando devono scegliere si servono dalla scuola sotto casa, non della migliore. E quindi, senza clienti che protestano, lo Stato-padrone ha scelto i capi, cioè i presidi, per essere dei burocrati. Con concorsi dove si valuta la conoscenza delle leggi e delle norme.

Non che i presidi italiani siano tutti, o in maggioranz­a, burocrati. Ci sono tanti presidi che sono dei veri leader: ma questo perché la scuola è ancora per tanti una missione, non certo perché lo Stato li ha scelti così. Perché hanno la passione della scuola e la vogliono guidare, e siccome sono intelligen­ti, tenaci e coraggiosi, si sono rimboccati le maniche e hanno vinto il concorso. Dare loro più autonomia e poteri sarà sicurament­e un bene.

Ma altri presidi non sono così. Come capita nelle aziende senza concorrenz­a e che non sentono la pressione del mercato, piene di dirigenti non all’altezza.

È questo che una vera riforma della scuola deve creare: un sistema che permetta ai suoi clienti di conoscere gli istituti migliori, con valutazion­i oggettive e una vera trasparenz­a sul valore della formazione nel mercato del lavoro. Solo allora, potrà sceglierne bene i capi — cioè i presidi — e responsabi­lizzarli.

Perché il potere senza responsabi­lità è solo arbitrio.

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