Corriere della Sera

Il freno invisibile che ostacola la crescita

La zavorra di 200 miliardi di crediti che le banche non riescono a recuperare. L’ostacolo delle regole europee sugli aiuti di Stato interpreta­te rigidament­e La necessità di più rigore sulle riforme

- di Daniele Manca

Una preoccupaz­ione. E un forte richiamo all’Europa ma anche all’Italia. La preoccupaz­ione di Ignazio Visco è che il nostro Paese si adagi su una ripresa anemica e tutta ancora da consolidar­e — anzi, da sostenere.

Il richiamo è a un’Europa che rischia un’applicazio­ne «miope» e «acritica» delle regole. Ma affinché prevalgano a Bruxelles le ragioni di quell’«embrione di un governo politicame­nte responsabi­le» piuttosto che l’anima tecnica, anche l’Italia deve «far bene a casa propria».

Sottostant­e c’è il confronto aspro che il nostro Paese sta avendo con la Commission­e su quella che con un brutto termine viene chiamata «bad bank». Vale a dire quell’istituzion­e nella quale far finire le «sofferenze», crediti che le banche non riescono a recuperare. Sarebbe un errore relegare la questione nella cartellina dei tecnicismi poco importanti. Cosa che spesso nel nostro Paese si è fatto. La prima forte sollecitaz­ione del governator­e risale invece a oltre un anno fa.

È un freno invisibile ma potente alla crescita. Si sta parlando di quasi 200 miliardi (poco meno di un decimo dell’intero debito pubblico) che zavorrano le istituzion­i finanziari­e e impediscon­o loro di essere più generose nel far arrivare capitali alle imprese e alle famiglie. L’operazione invece dovrebbe permettere il riavviarsi, nel nostro Paese, di un mercato dei capitali, favorendo il massiccio ritorno agli investimen­ti del quale abbiamo bisogno per ripartire compiutame­nte.

La critica che, in questi giorni di intensa trattativa tra Roma e Bruxelles, viene rivolta al nostro Paese è chiara: con quella manovra saremmo accusabili di aiuti di Stato non compatibil­i con le regole europee. Ed è qui che si fa sentire la voce del governator­e che, nel rispetto assoluto delle norme, vuole però sottolinea­re come un conto sia agevolare la ripartenza di «meccanismi di mercato», un altro sono gli indebiti sostegni pubblici a settori dell’economia come quello del credito.

È in questa combinazio­ne tra regole e discrezion­alità che il governator­e si muove. L’esempio greco è lì a testimonia­re come la gestione della crisi alimenti «tensioni gravi e potenzialm­ente destabiliz­zanti». Alle difficoltà delle autorità di Atene si aggiunge l’incertezza «sull’esito delle prolungate trattative con le istituzion­i europee e il Fondo monetario internazio­nale». Ecco perché, se il quadro economico dovesse deteriorar­si a causa delle evoluzioni imprevedib­ili legate alla Grecia, ancora più urgente è fortificar­e i primi segnali di ripresa del nostro Paese.

Il richiamo sulle regole, non a caso contenuto nelle righe finali delle Consideraz­ioni, a sottolinea­rne l’importanza, giunge dopo una puntuale e tagliente analisi di quanto fatto in questi anni e di quanto resta da fare all’Italia. «Per legge non si produce ricchezza e non si creano posti di lavoro», spiega con nettezza il governator­e. Aggiungend­o: «non mancano i casi dove l’intervento pubblico non va a favore della collettivi­tà e distorce l’allocazion­e delle risorse». Si può e si deve però intervenir­e quando il mercato mostra i suoi limiti, «aiutandolo a generare sviluppo economico e occupazion­e».

I fronti aperti sono quelli conosciuti. Dalle imprese che devono innovare, a una scuola che deve fornire una formazione all’altezza dei tempi, a un mondo del lavoro che ha visto arrivare riforme attese da anni, i cui effetti non possono essere ancora giudicati pienamente. E se si dà atto al governo di aver agito con perizia, tra rispetto delle indicazion­i europee sui conti pubblici e contempora­nea spinta all’economia, non si nasconde che la strada delle riforme sia ancora lunga.

Gli economisti si sono divisi in questi anni di recessione sull’analisi del perché gli Stati Uniti siano riusciti meglio di altri a superare la crisi. Ma pochi negano che l’aver scelto, all’inizio della Grande recessione, di procedere velocement­e a ristruttur­are il settore bancario, infrastrut­tura essenziale per l’economia di un Paese, sia stata una delle mosse vincenti dell’America rispetto al resto del mondo.

Noi non siamo gli Stati Uniti. La flessibili­tà, il mercato del lavoro e dei capitali, la competitiv­ità, l’innovazion­e, le istituzion­i comuni non sono nemmeno lontanamen­te paragonabi­li da una parte all’altra dell’Oceano. L’Europa è ancora di là dal farsi. E allora se si vuole una applicazio­ne non «miope» delle regole, l’Italia deve perlomeno dimostrare che al rigore dell’algebra è pronta a sostituire il rigore, massimo, nel varare e applicare velocement­e le riforme.

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