Il freno invisibile che ostacola la crescita
La zavorra di 200 miliardi di crediti che le banche non riescono a recuperare. L’ostacolo delle regole europee sugli aiuti di Stato interpretate rigidamente La necessità di più rigore sulle riforme
Una preoccupazione. E un forte richiamo all’Europa ma anche all’Italia. La preoccupazione di Ignazio Visco è che il nostro Paese si adagi su una ripresa anemica e tutta ancora da consolidare — anzi, da sostenere.
Il richiamo è a un’Europa che rischia un’applicazione «miope» e «acritica» delle regole. Ma affinché prevalgano a Bruxelles le ragioni di quell’«embrione di un governo politicamente responsabile» piuttosto che l’anima tecnica, anche l’Italia deve «far bene a casa propria».
Sottostante c’è il confronto aspro che il nostro Paese sta avendo con la Commissione su quella che con un brutto termine viene chiamata «bad bank». Vale a dire quell’istituzione nella quale far finire le «sofferenze», crediti che le banche non riescono a recuperare. Sarebbe un errore relegare la questione nella cartellina dei tecnicismi poco importanti. Cosa che spesso nel nostro Paese si è fatto. La prima forte sollecitazione del governatore risale invece a oltre un anno fa.
È un freno invisibile ma potente alla crescita. Si sta parlando di quasi 200 miliardi (poco meno di un decimo dell’intero debito pubblico) che zavorrano le istituzioni finanziarie e impediscono loro di essere più generose nel far arrivare capitali alle imprese e alle famiglie. L’operazione invece dovrebbe permettere il riavviarsi, nel nostro Paese, di un mercato dei capitali, favorendo il massiccio ritorno agli investimenti del quale abbiamo bisogno per ripartire compiutamente.
La critica che, in questi giorni di intensa trattativa tra Roma e Bruxelles, viene rivolta al nostro Paese è chiara: con quella manovra saremmo accusabili di aiuti di Stato non compatibili con le regole europee. Ed è qui che si fa sentire la voce del governatore che, nel rispetto assoluto delle norme, vuole però sottolineare come un conto sia agevolare la ripartenza di «meccanismi di mercato», un altro sono gli indebiti sostegni pubblici a settori dell’economia come quello del credito.
È in questa combinazione tra regole e discrezionalità che il governatore si muove. L’esempio greco è lì a testimoniare come la gestione della crisi alimenti «tensioni gravi e potenzialmente destabilizzanti». Alle difficoltà delle autorità di Atene si aggiunge l’incertezza «sull’esito delle prolungate trattative con le istituzioni europee e il Fondo monetario internazionale». Ecco perché, se il quadro economico dovesse deteriorarsi a causa delle evoluzioni imprevedibili legate alla Grecia, ancora più urgente è fortificare i primi segnali di ripresa del nostro Paese.
Il richiamo sulle regole, non a caso contenuto nelle righe finali delle Considerazioni, a sottolinearne l’importanza, giunge dopo una puntuale e tagliente analisi di quanto fatto in questi anni e di quanto resta da fare all’Italia. «Per legge non si produce ricchezza e non si creano posti di lavoro», spiega con nettezza il governatore. Aggiungendo: «non mancano i casi dove l’intervento pubblico non va a favore della collettività e distorce l’allocazione delle risorse». Si può e si deve però intervenire quando il mercato mostra i suoi limiti, «aiutandolo a generare sviluppo economico e occupazione».
I fronti aperti sono quelli conosciuti. Dalle imprese che devono innovare, a una scuola che deve fornire una formazione all’altezza dei tempi, a un mondo del lavoro che ha visto arrivare riforme attese da anni, i cui effetti non possono essere ancora giudicati pienamente. E se si dà atto al governo di aver agito con perizia, tra rispetto delle indicazioni europee sui conti pubblici e contemporanea spinta all’economia, non si nasconde che la strada delle riforme sia ancora lunga.
Gli economisti si sono divisi in questi anni di recessione sull’analisi del perché gli Stati Uniti siano riusciti meglio di altri a superare la crisi. Ma pochi negano che l’aver scelto, all’inizio della Grande recessione, di procedere velocemente a ristrutturare il settore bancario, infrastruttura essenziale per l’economia di un Paese, sia stata una delle mosse vincenti dell’America rispetto al resto del mondo.
Noi non siamo gli Stati Uniti. La flessibilità, il mercato del lavoro e dei capitali, la competitività, l’innovazione, le istituzioni comuni non sono nemmeno lontanamente paragonabili da una parte all’altra dell’Oceano. L’Europa è ancora di là dal farsi. E allora se si vuole una applicazione non «miope» delle regole, l’Italia deve perlomeno dimostrare che al rigore dell’algebra è pronta a sostituire il rigore, massimo, nel varare e applicare velocemente le riforme.