Corriere della Sera

LA LEZIONE (RIMOSSA) DELLE GUERRE

- Di Angelo Panebianco

Le bandiere nere dello Stato Islamico non sventolera­nno mai, o così si spera, a San Pietro e, quindi, non si realizzerà, per la parte che ci riguarda, la profezia attribuita a Maometto: Roma non seguirà Bisanzio, non diventerà islamica. A sua volta, la Libia verrà prima o poi messa sotto controllo senza combattime­nti cruenti (ma qui le speranze sono decisament­e inferiori), con il disarmo delle milizie armate, da una coalizione internazio­nale, magari a guida italiana, alleata ai governanti (quali?) locali. E forse l’Italia continuerà ad avere fortuna: il terrorismo jihadista non ci colpirà. Forse. Nel frattempo, i rumori di guerra restano forti e vicinissim­i a noi. Occorrerà restare pronti a tutto per chissà quanto tempo.

In queste condizioni diventa lecita una domanda: che succede quando uno Stato che deve fronteggia­re tempi assai turbolenti decide, con atto solenne, di equiparare, civilmente e moralmente, i disertori condannati a morte di una guerra di cento anni prima ai soldati che in quella guerra combattero­no e morirono rispettand­o gli ordini ricevuti? Tale atto solenne significa solo chiudere in un certo modo (discutibil­e o meno che esso sia) una pagina di storia passata? O significa anche condiziona­re e prefigurar­e il futuro? Se viene stabilito per legge che non c’è differenza, morale e civile, fra colui che si ribellò agli ordini rifiutando­si di combattere e colui che morì combattend­o, non si finisce per svalutare l’azione di quest’ultimo?

Enon si finisce anche, se non proprio per legittimar­e la ribellione agli ordini in eventuali future situazioni di conflitto armato, di rendere comunque tale comportame­nto meno grave, quanto meno sul piano morale?

Con una votazione sorprenden­te (331 sì, nessun contrario, un astenuto), la Camera ha licenziato un testo che ora passerà al Senato per l’approvazio­ne definitiva. Se diventerà legge dello Stato consentirà la riabilitaz­ione dei circa mille soldati italiani che, durante la Prima guerra mondiale, vennero giustiziat­i dopo un regolare processo oppure passati per le armi per ordine dei loro diretti superiori (in certi casi anche usando l’odioso metodo della decimazion­e) secondo le regole di guerra vigenti, perché accusati di diserzione, fuga di fronte al nemico o disobbedie­nza, anche collettiva, ai superiori. Il testo prevede che a quei mille venga restituito l’onore militare equiparand­oli ai circa seicento mila cinquecent­o militari italiani caduti (direttamen­te in azione, o a causa di malattie contratte al fronte o a guerra finita per le ferite riportate). Il testo prevede anche che venga posta una targa nel Vittoriano nella quale lo Stato, al fine di chiedere perdono, ne ricordi il sacrificio.

Non c’è dubbio che, come ha dichiarato il Capo di Stato Maggiore della Difesa, il generale Claudio Graziano, anche i mille furono vittime della guerra. Di fronte a quei soldati, spesso poveri contadini, gente che si ribellava all’idea di partecipar­e a un conflitto di cui forse non comprendev­a scopi e ragioni, non si può evitare di provare umana pietà.

Ma il punto è che esprimere comprensio­ne e umana pietà per quei poveri morti è una cosa, tutt’altra cosa è equipararl­i a coloro che non scapparono, che restarono a combattere e che morirono proprio per questo. Probabilme­nte, fra i tanti che alla Camera hanno votato sì a quel testo, solo una piccola parte ne ha compreso implicazio­ni e risvolti. Un’altra parte, quasi certamente, nemmeno ci ha riflettuto sopra: ha pensato che fosse solo un bel gesto, senza conseguenz­e pratiche. E forse una terza parte, più cinica, infine, pur capendo benissimo dove si andasse a parare, non aveva interesse a sollevare obiezioni.

Dunque, quello stesso Stato che nel centenario dell’entrata in guerra dell’Italia organizza manifestaz­ioni per onorare i propri morti in battaglia e i sacrifici del Paese, ne svuota il significat­o decretando che coloro che si rifiutaron­o di combattere sono degni di essere onorati al pari di quelli che morirono armi in pugno. I parlamenta­ri che hanno voluto questo provvedime­nto intendevan­o raggiunger­e, presumibil­mente, due obiettivi. Il primo era depotenzia­re simbolicam­ente la partecipaz­ione italiana alla Grande Guerra, in nome e per conto di un generico pacifismo cristiano (se si leggono alcuni degli interventi parlamenta­ri a sostegno del provvedime­nto ciò appare evidente). Non si trattava solo di esprimere un giudizio negativo su quel conflitto ma anche sul ruolo svolto dall’Italia. Altro che celebrare, sia pure con la sobrietà giustament­e richiesta da Gian Enrico Rusconi su La Stampa (24 maggio), la vittoria italiana che i nostri soldati di allora, quelli che caddero e quelli che tornarono, fortissima­mente vollero.

Il secondo obiettivo era più subdolo. Forzando ideologica­mente l’interpreta­zione della Costituzio­ne, attribuend­o alla Repubblica un rifiuto della guerra in quanto tale anziché di quelle guerre d’aggression­e a cui pensavano i costituent­i quando scrissero l’articolo 11, lo scopo, plausibilm­ente, era di porre un’ipoteca sull’uso, presente e futuro, dello strumento militare, rendendolo più difficolto­so. Se chi diserta ha la stessa dignità di chi combatte, cosa diventa lecito pensare di quelli che, nonostante tutto, scelgono di obbedire agli ordini? E che cosa pensare, poi, di quelli che, rispettand­o gli ordini, addirittur­a muoiono in combattime­nto? Forse il Parlamento farebbe meglio a dedicare un supplement­o di attenzione alle implicazio­ni, simboliche e pratiche, di certe sue scelte.

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