Corriere della Sera

Quel costruttor­e che pretende dallo Stato quasi 2 miliardi

Oggi il giudice potrebbe decidere pagamenti per 821 milioni su una lite del ‘92

- Di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

Chi l’avrà vinta: lo Stato o «Al Cafone»? I giudici della Corte d’appello di Roma sono chiamati oggi a prendere una decisione cruciale. Devono stabilire se lo Stato deve o no versare al costruttor­e Edoardo Longarini, storico padrone dei lavori pubblici ad Ancona, 821 milioni e rotti. Una somma mostruosa. Pari ai tagli fatti dal governo l’anno scorso a Comuni e Province. Ed è solo la prima trance, già accantonat­a dall’Economia: in ballo ci sono infatti un miliardo e nove. Pari alla costruzion­e, in Europa, di 190 chilometri di autostrade.

Non sappiamo come andrà. Ma ti chiedi: in quale altro Paese lo Stato sarebbe costretto a versare una simile enormità nelle tasche di un concession­ario benedetto da un accordo ancora più indecente di quello concesso per il Mose al Consorzio Venezia Nuova e condannato in primo grado e poi in appello per truffa aggravata ai danni dei cittadini italiani, prima di vedere evaporare le condanne nella nuvoletta della prescrizio­ne?

La storia di questo «affaire» a cavallo tra Iª e IIª Repubblica è infinita. Comincia nel ‘ 51, quando il giovane Edoardo, figlio di un ferroviere di Tolentino, si ritrova in mano con la impresetta appena messa su il piano di ricostruzi­one post bellica di Ancona. Trentatrè anni dopo è a capo di un impero. Prima il terremoto del 1972, poi la frana del 1982: l’Adriatica costruzion­i non perde un colpo. L’impresa di Longarini ha il monopolio dei lavori grazie a una specie di concession­e perpetua. Cosa significa concession­ario? «Lo dice la parola stessa » , rispose un giorno l’allora ministro dei Lavori pubblici Paolo Costa, «il concession­ario è colui che si offre e lo Stato colui che concede. Non ci sono dubbi sulla carta: le condizioni le fissa lo Stato e il concession­ario se vuole accetta e sennò ciao. Senza anticipi e senza revisioni. Con Longarini è sempre andata in un altro modo». Era lui a fissare i prezzi.

Senza la scomodità delle gare d’appalto, senza il fastidio della concorrenz­a, senza manco dover rispettare scadenze. Se non bibliche. Basti dire che, avendo ottenuto secondo la Corte dei conti di poter lavorare solo 180 giorni l’anno, riuscì a strappare la possibilit­à di costruire un pezzo di strada di pochi chilometri in 29 anni e un mese: ventinove! Quattro volte di più di quelli impiegati per il tunnel sotto la Manica.

Per anni, il figlio del ferroviere strettamen­te legato alla politica e alla Dc è il padrone della città. Suoi sono i giornali locali. Sua l’ultima parola nella scelta di chi candidare a queste quella carica. Sua la squadra di calcio, usata come una clava con le minacce a chi intralcia i suoi affari: «Ma cosa mi combini? Vado allo stadio domenica e dico a tutti, attraverso gli altoparlan­ti, che vuoi bloccare lo sviluppo di Ancona!». Toni spicci che gli fanno guadagnare, da parte del deputato di sinistra Eugenio Duca, quel soprannome che gli resterà appiccicat­o addosso: Al Cafone.

Sono gli anni ruggenti delle opere pubbliche. Con perizie suppletive e continue varianti i costi crescono dappertutt­o come la panna montata. Ma ad Ancona, di più. La Corte dei conti registra sovrapprez­zi del 258% per gli sbancament­i e del 298% rispetto all’Anas.

Finché anche lì non scoppia Tangentopo­li. Siamo nei primi anni Novanta. Longarini viene arrestato e si fa un paio di mesi di carcere. Poi si becca dieci anni in primo grado, ridotti a tre anni e otto mesi in appello.

La parabola di «Al Cafone» sembra definitiva­mente esaurita. Anche perché il ministero dei Lavori pubblici, nel 1992, ha revocato tutte le concession­i dell’Adriatica costruzion­i. Mai dire mai, però. Ed ecco che il Consiglio di Stato, sette anni dopo, capovolge una sentenza del Tar che aveva confermato quella revoca, annullando il provvedime­nto.

Longarini torna in pista. E nel 2000 la Corte d’appello arriva a condannare il ministero a risarcirgl­i i danni, per non aver emanato un vecchio decreto di affidament­o di un lotto di lavori alla sua impresa.

Facciamo un passo indietro. Quel decreto era previsto da una legge del 1984 per il completame­nto della ricostruzi­one di Ancona. Ma non era stato mai emanato perché non c’erano i soldi a disposizio­ne, il che avrebbe comportato una violazione dell’articolo 81 della Costituzio­ne. Longarini aveva comunque aperto i cantieri, e un pretore aveva condannato il ministero a fare quel decreto anche senza avere i denari.

Eravamo nel 1990, alla vigilia della bufera giudiziari­a. E dieci anni esatti dopo, ecco la sorpresa del risarcimen­to danni. La condanna subita da Longarini, evaporata grazie alla prescrizio­ne, passa come l’acqua fresca.

La macchina infernale è in moto e nessuno la può fermare. Nel 2004 Longarini chiede i danni. Due anni dopo il ministero delle Infrastrut­ture accetta di risolvere il braccio di ferro con tre arbitrati. Ministro è Antonio Di Pietro, che gli arbitrati sostiene di volerli abolire: «Mi hanno convinto i tecnici», dirà. Ma è come mettere la testa nelle fauci di un leone affamato.

Anche le pietre sanno che con gli arbitrati lo Stato soccombe 95 volte su 100. E qui non si fa eccezione. Soltanto, va molto peggio del previsto: i lodi definitivi condannano i contribuen­ti italiani a pagare a Longarini, tenetevi forte, un miliardo 201 milioni 105.077 euro. Più ovviamente interessi e spese varie. Senza contare poi i compensi degli arbitri che si alternano nei tre collegi in una girandola di avvocati dello Stato (come Vincenzo Nunziata), consiglier­i di Stato (come Pasquale De Lise), ex manager pubblici (Come Vito Gamberale) e perfino politici (come l’attuale segretario dell’Italia dei Valori Ignazio Messina): le parcelle ammontano a 17 milioni e mezzo. Ci sarebbe perfino da leccarsi i baffi, per com’è andata, consideran­do che Longarini aveva chiesto per uno solo dei tre arbitrati 4 miliardi e 850 milioni.

Questo accade nel 2012. E al danno si aggiunge pure la beffa, perché nel frattempo Longarini è stato condannato dalla Corte dei conti a risarcire lui lo Stato per 71 milioni di euro, ma se la cava grazie a un condono approvato dal governo Berlusconi nel 2005.

Il ministero impugna il lodo arbitrale in Corte d’appello, ma i giudici dichiarano inammissib­ile il ricorso a causa di una formalità: è stato presentato 48 ore prima dell’entrata in vigore di una legge che avrebbe consentito il suo accoglimen­to. Si va allora in Cassazione, il che però non blocca l’esecutivit­à della sentenza.

Il 30 gennaio scorso il ministero si vede notificare un pignoramen­to da un miliardo 888 milioni 485.275 euro e 86 centesimi. Il che costringe la Banca d’Italia ad accantonar­e, il 9 febbraio, l’incredibil­e somma di 821,5 milioni a parziale garanzia. Soldi che finirebber­o subito in tasca all’ottan-taquattren­ne Longarini.

Il rischio è più che concreto. La Corte d’appello, che all’udienza di oggi dovrebbe stabilire l’assegnazio­ne delle somme pignorate, non solo ha già respinto l’impugnativ­a del lodo arbitrale ma ha anche rigettato la richiesta di considerar­e quel denaro alla stregua di una cauzione: senza cioè che vengano consegnato materialme­nte a Longarini prima del giudizio della Cassazione. Una decisione diversa dei giudici servirebbe almeno a riabilitar­e un poco la giustizia. Che qui non ha fatto davvero una gran bella figura.

 ??  ?? La squadra Nel 1984 Longarini
(a destra) prese la direzione dell’Ancona Calcio, allora in crisi, per poi diventarne proprietar­io
La squadra Nel 1984 Longarini (a destra) prese la direzione dell’Ancona Calcio, allora in crisi, per poi diventarne proprietar­io

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy