Con la voce di Fo i sogni in fiamme degli immigrati
AGallarate, l’operaio rumeno Ion Cazacu è stato barbaramente ucciso dal suo datore di lavoro italiano, Cosimo Iannece, perché aveva osato insistere a chiedergli lo stipendio. L’imprenditore ha fatto irruzione nell’appartamento che Cazacu divideva con altri connazionali (tutti operai e tutti da mesi senza paga), l’ha cosparso di benzina e gli ha dato fuoco con un accendino, bloccando la porta per impedirgli di fuggire. Trasformatosi in una torcia umana e riportando ustioni di terzo grado sul novanta percento del corpo, Cazacu è morto pochi giorni dopo, lasciando la moglie e le figlie giovanissime. Dal canto suo, il signor Iannece, dopo aver tentato di corrompere i testimoni e di convincere gli inquirenti che si fosse trattato di un incidente provocato da una sigaretta e da una bottiglia di benzina usata dallo stesso Cazacu per pulire gli strumenti di lavoro, è stato condannato a trent’anni di carcere. Dopo il terzo grado, tuttavia, e vista la buona condotta del detenuto, la pena per aver arso vivo un uomo è stata ridotta a dieci anni solamente. Fine.
La cronaca è raccapricciante. Ma non soltanto per il fatto in sé. Il punto, piuttosto, è che l’abbiamo già letta. Notizia vecchia, risalente al 2000, che avrebbe meritato di restare stampata nella memoria di un Paese, e invece rimossa, cancellata in un attimo dal flusso continuo di notizie di «nera», magari altrettanto efferate ma forse meno disturbanti per la coscienza collettiva. E notizia attualissima, se è vero che non sono passati ancora otto mesi da quando due operai kosovari sono stati uccisi a colpi di pistola dal loro principale italiano, a Fermo, perché colpevoli di pretendere da lui gli arretrati. O abbiamo rimosso già anche questo? Ecco perché è davvero benefica, quanto agghiacciante, la lettura di Un uomo bruciato vivo (Chiarelettere, pp. 98, 10), il piccolo libro che raccoglie la conversazione tra Dario Fo e Florina Cazacu, figlia dell’operaio vittima di quell’autentica esecuzione. Volume in cui, molto giustamente, il Premio Nobel fa un passo indietro, prestandosi al ruolo di orecchio che ascolta e, al limite, di cassa di risonanza per far parlare una storia che basta a se stessa, ma che va molto al di là del singolo avvenimento.
Ion Cazacu è l’agnello sacrificale di un intero mondo sommerso in cui convergono problemi a cui ci illudiamo di prestare attenzione — immigrazione, sfruttamento sul lavoro, imprenditoria malavitosa — ma i cui protagonisti raramente assumono nelle nostre menti i contorni concreti e la dignità di persone. Un mondo nel quale, se questa è una vicenda estrema, la norma non è rassicurante. La realtà del caporalato, che sfrutta la manodopera irregolare a 25 euro al giorno, pretendendo poi il venti percento per il caporale (questi i dati della Caritas forniti dalla postfazione di Salvatore Cannavò). La realtà d’immigrati indebitatisi per venire in Italia ma i cui sogni si infrangono davanti a imprenditori capaci di tenersi mesi e anni di arretrati; se si protesta, la minaccia è servita: li si denuncia come irregolari e scatta il rimpatrio. E infine realtà che ci coinvolge, perché parte importante della nostra economia. Dario Fo ce ne dà un ritratto secco, feroce, sconfortante. Ma non ci fa sentire soli. Accanto a lui c’è Florina, ed è proprio la vittima indiretta di questa tragedia a offrirci un appiglio. Lei, solo lei, che ha rincorso il carnefice per ottenere il risarcimento, e che a distanza di quindici anni lotta ancora per tenere vivo il ricordo di quanto avvenuto, non si è stancata di incarnare lo spirito forte di suo padre, l’idea che l’aveva portato in Italia: la fiducia che le cose possano cambiare.