Cronache di ordinaria stupidità in una metropoli senza più cuore
Se pensate almeno un po’ di bene, non tantissimo ma almeno un po’, del mondo televisivo che promuove i libri e i loro autori, soffrirete leggendo le pagine di Qualunque cosa significhi amore di Guia Soncini, pubblicato da Giunti. Verreste contagiati dal disincanto purissimo che trasuda da questo romanzo, dalla disillusione sul conto dei suoi protagonisti, sulla pochezza un po’ miserabile di un universo che si vorrebbe scintillante e vivo, ma che è solo una instancabile fabbrica del vuoto.
Tom Wolfe ha appiccato a New York il falò delle vanità. Guia Soncini ha messo invece sul piedistallo del ridicolo l’irresistibile carriera dell’editorialista di punta del grande giornalone che verga pensosi commenti sullo «sfascio culturale assoluto per cui in questo Paese i poeti facevano la fame e i cuochi diventavano bestseller» e agisce senza sosta per far dimenticare il suo borgo natio: Frosolone, provincia di Isernia.
Difficile conquistare il brillante mondo milanese «cresciuto nella cerchia dei bastioni» se poi a scuola i tuoi compagni meneghini ti prendono in giro a sangue dicendo che parli come l’Abatantuono di Eccezziunale… il «terrunciello» che non aspirava a fare l’opinion leader e a sextare in modo ossessivo, ma al massimo a fare il capocurva dei combattenti milanisti.
Se avete il complesso di inferiorità culturale e cercare di non apparire maldestri nella sistemazione estetica della vostra libreria: anche in questo caso, la Soncini vi farà soffrire. Magari non vi chiamate Fanny Montestrutto, figlia di palazzinara romana che all’inizio della carriera, prima di essere civilizzata da Elsa, reduce del Dams e imbottita di sonniferi, e dal Vanni da Frosolone, usava dire: «Io so’ Fanny, piascére». Magari non sarete la riedizione del persoche
Tormenti Pseudo intellettuali in preda a paure, sentimenti flosci e affetti rinsecchiti
naggio della Elide dipinta con maestria sublime dal gigantesco Ettore Scola in C’eravamo tanto amati e non avrete scritto la fondamentale opera prima La notte in cui mi aprì come una pesca noce per proiettarvi nel firmamento delle grandi star culturali.
Però, occhio alla disposizione dei libri, alla «parete di titoli giusti», all’impressione di non avere solo tanti libri ma di «averli ereditati» e che «siano edizioni abbastanza vecchie da proiettare di te l’immagine di una che ci è cresciuta in mezzo». E dunque sarete pur toccati dalla genialità esibizionistica se nel «corridoio di libri consunti» fate in modo che spuntino volumi con le dediche falsificate dei genitori per fare impressione, ma solo impressione, di cultura solida e antica. Ma «gli Adelphi ordinati per colore, no». È eccessivo. Denuncia le origini. Non piace nella cerchia dei bastioni, an- se si comincia a mettere, terroni che non siete altro, «l’articolo determinativo ai nomi maschili con la naturalezza d’un Moratti».
Soffrirete, in questo romanzo della Soncini che porta in esergo una citazione strepitosa del Martin Amis dell’Informazione: « Posso addirittura dirvi che odore hanno le loro lenzuola: odore di matrimonio». E sperate di non lavorare nel grande circo della piccola e asfittica industria culturale italiana. Perché Soncini scrive un’avvertenza in cui si specifica virtuosamente che «ogni elemento di realtà citato nel corso della narrazione deve essere inteso come libera e fantasiosa rielaborazione dell’immaginazione dell’autrice». Ma è un’avvertenza dovuta e consigliata dagli avvocati. Trovereste pezzetti, frammenti, polvere di voi in queste pagine e nei personaggi che le affollano. E ne soffrirete.
Se fate parte del mondo in cui la «gente aveva tutta un libro in uscita», riconoscerete atmosfere, tic, sciocchezze, piccinerie, tradimenti. Se invece no, avete la fortuna di starne fuori, soffrirete di meno con il grande, importante, autorevole editorialista che invia a cinque numeri telefonici contemporaneamente lo stesso messaggio: «Senza di te questa giornata è vuota».
Guia Soncini, nei ringraziamenti, rivela che Lorenzo Cherubini, Jovanotti, dopo aver letto le bozze di questo romanzo, le aveva suggerito questo titolo «splendido» ma «inutilizzabile»: Una bella storia di gente di merda. Di quella gente lì si accenna nelle righe di questo articolo. Della storia, che negli ultimi capitoli imbocca strade che lasceremo al lettore percorrere, si può solo dire che anche i più smaliziati non cesseranno di stupirsi per la catatonica stupidità che emana dai personaggi, per gli ambienti, per le case, per la forza oramai svuotata del pettegolezzo come arma di sputtanamento universale.
Sentimenti flosci, sensualità pallida, affetti rinsecchiti. Un mondo in cui il più grande gesto d’amore del marito fedifrago che comunica le sue opinioni al mondo è quello di afferrare mollemente «tra due dita un lobo della moglie» scostandole «i capelli dalle sopracciglia». Preludio di un dialogo intenso e appassionante tra coniugi che si conclude con uno sconvolgente: «Ma veramente siamo senza caffè?». Veramente. E bisogna leggere questo romanzo per capirlo.