LA SEDUZIONE DI POMPEI
LE TURISTE STRANIERE E LA SCOPERTA DELL’EROS COSÌ LA LEGGE DEL DESIDERIO DIVENTA ARTE
La Pompei amata dai napoletani si è sempre identificata con il santuario della Madonna L’urbe pagana punita con il fuoco: associazione irresistibile per la cultura protestante
L’appuntamento L’influenza artistica del luogo sepolto dalla lava del Vesuvio è al centro di una grande mostra a Napoli e nel sito archeologico. Uno scrittore rievoca quell’intreccio di bellezza e passione che da secoli incanta i viaggiatori
Era difficile non amarle, sullo sferragliante trenino che collegava Napoli a Sorrento via Pompei. Loro: le campeggiatrici neanche ventenni. Nasini spruzzati di efelidi, capelli color miele e pelle boreale delle nordiche. Difficile non desiderarle in maniera un po’ meno e un po’ più che erotica.
Loro: esili come silfidi eppure capaci di sopportare il fardello di zaini dimensionati per una spedizione polare. Loro: immagini di clavicole dalla commovente delicatezza intraviste fra le bretelle della canottiera celeste o nello scollo di una t-shirt immacolata. Noi, viceversa: dei ragazzini tanto più rumorosi quanto più intimiditi da quelle leggiadre viaggiatrici dirette a Villa dei Misteri ed essere stesse misteriosissime.
Le favoleggiavamo come tanto sessualmente evolute da poter disprezzare l’ingenua seduttività delle nostre coetanee. E talmente colte da diventare insensibili a qualsiasi strapazzo per dei ruderi. Noi, viceversa: teste, profili e pigmenti saraceni (non ancora barbuti come corsari barbareschi, però). Abbrustoliti già al 20 di giugno e provvisti solo di un asciugamani che, a seconda del suo essere arrotolato o dispiegato, diventava telo, cabina volante, cuscino. La nostra piccola torma era invariabilmente diretta a una spiaggia, a un’acqua brodosa purchessia. Loro, viceversa, scendevano infallibilmente a Pompei. Senza un preavviso dell’altoparlante, bensì allarmate solo da un sesto senso.
Oppure da qualche insegnamento tramandato da madri e zie che le avevano precedute. Arrivavano a destinazione dopo migliaia di chilometri, più o meno come delle rondini. Ma non per questo si rallegravano. Tutt’al più si scambiavano di quei sorrisi allusivi con cui delle compagne si rassicurano a vicenda nell’imminenza di una prova (un esame, un test di gravidanza, la prima notte fuori. Iniziazioni così). Loro, le straniere che mettevano piede sul marciapiede della stazioncina neo-pompeiana. Noi: i locali predestinati a vederle confondersi, sulla banchina, tra una folla di loro gemelle (guance accalorate sotto un velo di sudore e la splendente, sostanziale innocenza degli occhi azzurri). Le osservavamo con la consapevolezza della nostra insignificanza, certo. Con un desiderio inappagato e, perciò, indimenticabile. E poi?
Con un fondo di allegria per non doverci essere anche noi in quell’incolonnamento babelico di lingue tutte parlate sottovoce. Manco si stesse entrando in chiesa o fra i cipressetti di un camposanto. Ecco perché, mentre il trenino entrava stridendo nel freddo di una galleria, non le invidiavamo affatto le nostre ex compagne di viaggio ( pur amandole come è certo che le amavamo). Il motivo?
Ma per quel loro doversi accodare in una fila lenta, composta come quelle che rendono omaggio a dei defunti illustri. Noi invece, i giovanissimi napoletani descamisadi, ci tenevamo bene alla larga da quel luogo di morti. Da quel negativo fotografico e contraltare sotterraneo della città vivente che ci illudevamo di abitare. A noi quell’altra cittadinanza, calcificata nell’atto di fuggire da cenere e gas, risultava totalmente aliena. È sempre stato così, d’altra parte, con le dovute eccezioni che non sovvertono la regola. La Pompei amata dai napoletani si è sempre identificata con la plaga contadinesca da cui sorse il santuario della miracolosa Madonna eponima. Del resto gli scavi si avviarono con Carlo di Borbone, uno spagnolo naturalizzato. Furono quindi Goethe e Winckelmann, a diffondere, nell’Europa colta, la notizia di quei ritrovamenti. E sarà sotto il regno del francese Murat, grazie alla corsa Carolina Bonaparte, che l’attività di scavo prenderà la sua velocità di crociera. E solo uno yankee come Melville potrà confessare: «Amo Pompei più di Parigi». È stata l’anima europea e nordamericana a venire magnetizzata dal fascino della Pompei antica. E il fascinum, per i latini, non era altro che il fallo. Per la sensibilità protestante Pompei ha sempre rappresentato l’oscena città dai cento lupanari. La città pagana punita con la pioggia di fuoco al pari di Sodoma. Un’associazione mentale irresistibile per una cultura, come quella centro e nordeuropea, nutrita di quotidiane letture bibliche.
Bellezza e peccato, dunque. Un inestricabile complesso di pulchritudo venerea, colpa e thanatos. Perché, come ha scritto A. von Platen, grande amante del polimorfismo sessuale mediterraneo e delle sue riprovevoli attrattive: «Chi ha guardato la bellezza negli occhi / si è già consegnato alla morte».