La poesia di Martini e la maledizione fissata nei calchi
Lo scultore prese spunto dalle vittime dell’eruzione. Ma dopo quelle opere soffrì di anoressia creativa
con gesso liquido colato attraverso buchi praticati sulla crosta del deposito vulcanico. Da quelle impronte tridimensionali vuote, si ottenevano i calchi delle vittime nel momento stesso della loro morte, avvenuta per lo più per asfissia. I gessi fecero subito molta impressione e lasciarono un ricordo indelebile anche nello scultore Arturo Martini che nel novembre del 1931 intraprese un viaggio a Pompei.
Martini era già noto per la capacità di assimilare ogni tipo di suggerimento visivo e Roberto Longhi, nell’Italia letteraria, lo aveva descritto come «spericolato sulle cime della scultura d’ogni tempo e d’ogni paese » spiegando che con «un’intelligenza da stordire […] imbussola con il piglio prestigioso di un imbonitore di lotteria, i numeri di Medardo Rosso, dei busti reliquiario romanzi e dell’arte runica, di Moscultura digliani e del Fayoûm, della romanità e del vero».
Nel 1932, pochi mesi dopo il ritorno da Pompei, Martini lavorava già ai primi bozzetti di quella che diventerà La Sete, una figura di donna inginocchiata, in posizione quasi supina, con un bambino aggrappato al fianco. Realizzata con la pietra di Finale, dall’effetto ruvido e poroso che la fa sembrare corrosa dalle intemperie, la
Sodalizio Pablo Picasso (un affezionato di Pompei)
e Léonide Massine nel giardino della casa
di Marco Lucrezio a Pompei fotografati da
Jean Cocteau (1917) Un attimo prima della fine In alto, Arturo Martini, «Il bevitore» (o «La sete») 1933-1936. Sotto, Casa del sacerdote Amandus, calco di vittima, trovata nel 1952 appariva estremamente drammatica, ma ancora «decorativa» rispetto all’essenzialità cui la stessa idea venne ridotta ne Il bevitore oggi alla Gnam di Roma, ultimato nel 1936 ma la cui prima progettazione risaliva al 1933. «Delle tante figure desideranti di Martini — ha scritto Elena Pontiggia, somma studiosa dell’artista — Il bevitore è la più drammatica. La sete qui non è una condizione fisica, ma esistenziale, e l’acqua verso cui la figura si protende non è un elemento naturale, ma metaforico [...] Più che a un Bevitore, siamo di fronte a un assetato, la cui sete è una sete di assoluto».
Con quel corpo che sembra carbonizzato, ridotto quasi ai limiti dell’astrazione, il Bevitore era all’epoca una delle sperimentazioni più audaci e radicali sulla figura umana. Eppure la sua novità passò inosservata forse perché, suggerisce ancora la Pontiggia, «il paragone con i calchi pompeiani, che apparve subito evidente, finì per neutralizzarne la sconvolgente originalità».
Così, verrebbe da dire, l’eruzione del Vesuvio fece ancora una vittima. Dopo essersi bulimicamente appropriato di ogni tradizione scultorea, compresa quella del calco, Martini fu colpito dall’anoressia. Proprio nel 1937 iniziava la sua crisi di scultore: «Su dieci opere non ne veniva una», confesserà. Cominciò la gestazione di un malessere che culminò nel celebre scritto La scultura lingua morta, pubblicato nel 1945. Un’abiura radicale: «Ma nella statua cosa può essere rimasto di non tentato e non risolto? Quante volte, guidato dal mio profondo, ho creduto di aver scoperto una soluzione nuova, accorgendomi poi che l’avevano trovata dieci secoli prima!»