Corriere della Sera

RIDIAMO ALLE REGIONI LO SPIRITO DELLE ORIGINI

Cambiament­o Ci sono stati eccessi, errori e scandali Ma è doveroso riprendere il disegno assegnato dalla Costituzio­ne dando vita finalmente a un sistema finanziari­o di vera e responsabi­le autonomia, in cui vengano corretti gli squilibri

- di Valerio Onida Presidente emerito della Corte costituzio­nale © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Caro direttore, «L’innovazion­e più importante introdotta dalla Costituzio­ne è nell’ordinament­o struttural­e dello Stato, su basi di autonomia; e può aver portata decisiva per la storia del Paese»: così si esprimeva Meuccio Ruini, presidente della commission­e incaricata di redigere il testo di Costituzio­ne da sottoporre all’Assemblea costituent­e, nella sua relazione al progetto, illustrand­o il titolo della Carta dedicato a «Regioni, Province e Comuni». Sabato scorso, commentand­o le imminenti elezioni regionali, Antonio Polito ha scritto sul Corriere che «di Regioni ormai non parla più nessuno» e che «se oggi s’avanza qualcosa è piuttosto un nuovo centralism­o», concludend­o con una sintesi fulminante: «Il potere è a Roma, in periferia sono rimaste solo le addizional­i Irpef».

È davvero così? È questa ormai la nostra prospettiv­a, insieme magari a quella della ulteriore crescita di un potere sovranazio­nale, l’Unione Europea?

C’è di che dubitarne. E forse si deve adottare una visuale un poco più a lungo termine. Intanto, si palesa un paradosso. Mentre si sostiene che le Regioni non interessan­o più a nessuno, si discute (anche in campagna elettorale) di un referendum in Veneto sull’indipenden­za, magari guardando ad esempi oltre frontiera, come la Scozia o la Catalogna. Come dire: se il potere è (solo) a Roma, non c’è che rendersene indipenden­ti ( los von Rom, lontano da Roma, secondo un vecchio motto degli ultras altoatesin­i di lingua tedesca).

È certo che nell’immediato la classe politica nazionale, nella sua grande maggioranz­a, oggi sembra non credere nelle Regioni. Altrimenti non si capirebbe come mai governo e maggioranz­a parlamenta­re insistano su un progetto di riforma costituzio­nale che — per questa parte — invece di limitarsi a correggere qualche errore evidente della riforma «federalist­a»(?) del 2001, si sia spinto a prefigurar­e un nettissimo riaccentra­mento di poteri legislativ­i nello Stato: e non certo perché lo Stato centrale sia oggi troppo debole, data la interpreta­zione sempre più estensiva data alle vigenti norme costituzio­nali che ne definiscon­o i poteri nei rapporti con le Regioni. Anche un movimento politico come la Lega, nato sull’onda di rivendicaz­ioni autonomist­iche se non secessioni­ste, oggi sembra più che altro interessat­o a diffondere a livello nazionale il suo verbo da destra estremisti­ca e anti immigrati.

Segni di miopia di una classe dirigente schiacciat­a sull’oggi immediato e sull’inseguimen­to degli umori affioranti nell’opinione pubblica. Possiamo guardare le cose un poco più in grande?

Le Regioni sono state volute e attuate (tardivamen­te e lentamente, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso) per cercare di costruire uno Stato nuovo, più moderno e più vicino ai cittadini di quello della tradizione centralist­ica e burocratic­a: per avere migliori servizi alle persone, per governare in modo intelligen­te il territorio, per sollecitar­e e accompagna­re lo sviluppo economico nel suo versante locale. Negli anni Settanta, per fare un solo esempio, fu la Regione Lombardia a varare la prima legge in Italia sull’inquinamen­to idrico, che ha preceduto quella statale del 1976.

La storia di ciascuna delle nostre Regioni ha certo conosciuto ritardi, insufficie­nze, anche pagine ingloriose. Ma non possiamo ridurla tutta all’uso disinvolto da parte di alcuni consiglier­i regionali dei finanziame­nti dati ai gruppi consiliari.

È ancora possibile — ed è doveroso — riprendere il disegno autonomist­ico (che la Costituzio­ne colloca fra i suoi principi fondamenta­li), razionaliz­zando i poteri e le procedure, costruendo amministra­zioni più moderne ed efficienti, dando vita finalmente ad un sistema finanziari­o di vera e responsabi­le autonomia, in cui ciascuna Regione disponga di risorse autonome e di poteri fiscali di cui risponde ai propri cittadini, e in cui i meccanismi di solidariet­à interregio­nale — indispensa­bili perché l’autonomia non si converta in egoismi collettivi, mantenendo e aggravando gli squilibri territoria­li in atto — siano trasparent­i e accompagna­ti da precise forme di responsabi­lità, anche attraverso l’impiego di poteri sostitutiv­i e di «commissari­amenti», dove è necessario.

Se l’imminente voto regionale fosse visto in questa chiave, anche la triste prospettiv­a di una crescente diserzione degli elettori dalle urne potrebbe essere contrastat­a e contenuta.

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