PIETÀ PER I FUCILATI INNOCENTI NON SIGNIFICA RETORICA PACIFISTA
Se i parlamentari hanno votato all’unanimità a favore della riabilitazione di centinaia di soldati vittime di una disciplina eccessiva, ciò non vuol dire disconoscere i meriti di coloro che resistettero sul Piave a costo della vita
Nel marzo 1917 un reggimento della brigata Ravenna protesta per una licenza promessa più volte e sempre negata. Viene sparato qualche colpo in aria, ma l’ordine è ristabilito con facilità. Il comandante della divisione si porta sul posto con i carabinieri. Non trova nessuno: il reggimento è già in marcia verso il fronte. Vengono scovati due fanti che dormono nelle baracche: l’ordine è di fucilarli. Uno piange disperato: «Ma perché, cosa ho fatto che mi volete fucilare? Ho sette figli!». I carabinieri, impietositi, esitano. Il comandante della divisione grida: «Fate finire questo cicaleccio! Siano fucilati e subito; gli ordini sono ordini».
Il castigo è solo agli inizi. Venti soldati vengono estratti a sorte, e cinque sono scelti per essere fucilati. Il plotone d’esecuzione trema, occorrono sei salve per uccidere tutti. Il comando di divisione valuta che non sia abbastanza: altri vengono mandati sotto processo. Tra loro un caporale che si è presentato volontario nel 1915 e ha già combattuto in Libia. Condannato a morte con altri commilitoni, rifiuta di farsi bendare e dice al plotone d’esecuzione: «Mirate giusto, mirate al petto, e servite sempre il vostro Paese. Viva l’Italia!». Il comandante di brigata, indignato, commenta che «bisognava promuoverlo, non fucilarlo». Ma il comandante del corpo d’armata vuole a sua volta guadagnarsi qualche merito agli occhi di Cadorna, e ordina di fucilare altri diciotto uomini. La brigata è terrorizzata. In tutto ha visto fucilare 29 commilitoni per una protesta subito rientrata senza violenze.
In linea di principio, quel che ha scritto sul Corriere di ieri Angelo Panebianco è ineccepibile: uno Stato non può mettere i disertori sullo stesso piano di coloro che morirono combattendo. Ma nella Grande Guerra lo Stato italiano non fece fucilare soltanto disertori. Tra i decimati non ci furono solo «coloro che si ribellarono agli ordini rifiutandosi di combattere » . La grande maggioranza delle esecuzioni sommarie avvenne sorteggiando uomini che avevano come unica colpa l’essere inquadrati in un reparto che a giudizio dei generali non era stato abbastanza combattivo. Non si veniva puniti per le proprie responsabilità; c’era quasi sempre l’elemento dell’«alea», della sorte. Vennero fucilati uomini che neppure erano presenti nel giorno dell’assalto sfortunato o dell’accenno di ribellione. Violazioni minori venivano sanzionate legando il colpevole a un palo, in piedi sulla trincea, esposto al fuoco nemico; alcuni impazzirono; gli altri non furono comunque più gli stessi, piegati dall’umiliazione. Era lo stesso Stato che — unico tra tutti quelli coinvolti nella guerra — vietava alle famiglie di mandare viveri ai prigionieri, considerati alla stregua di disertori: « Imboscati d’Oltralpe» li chiamava D’Annunzio. Il risultato fu che centomila prigionieri italiani morirono di fame nei campi austriaci.
Non è forse da comportamenti come questi che nasce, o si approfondisce, la distanza tra lo Stato e i suoi cittadini? Non fu anche il disprezzo coltivato e ostentato per le loro vite a fiaccare i soldati? Il 15 agosto 1917 in una trincea sopra Caporetto viene trovato un foglio con una poesia satirica, che dice più o meno: se non ci rimpiazzano, ci arrendiamo. Il responsabile non si trova. Lo scritto viene mostrato al generale Cavaciocchi, che ordina una punizione esemplare: vengono estratti a sorte quattro uomini e fucilati. Mancano poco più di due mesi alla rotta. Non a caso uno dei primi provvedimenti del nuovo comandante, Armando Diaz, sarà ripristinare un trattamento più umano per i soldati, ricostruire il rapporto tra lo Stato e il suo stesso esercito.
Panebianco ha ragione quando scrive che l’Italia di oggi non è pronta politicamente e moralmente a fronteggiare le responsabilità sullo scacchiere mediterraneo che le vengono dalla geografia e dalla storia. Ed è probabile che non siano pronti neppure il governo e il Parlamento. Ma se i parlamentari hanno votato per una volta all’unanimità un gesto di pietas per centinaia di fucilati innocenti, questo non significa di per sé cedere alla retorica del pacifismo a oltranza, e neppure disconoscere i meriti di coloro che sul Piave resistettero a costo della vita; significa risanare, almeno per quanto è possibile oggi, una delle molte fratture nel rapporto tra l’Italia e gli italiani.