Le gabbie, la boxe e gli scontri Ota Benga e i suoi fratelli neri
«Era una città giovane, ma lo sarà sempre, questo l’ho capito da molti anni, e lo sa chiunque viva a New York. Ma in quei giorni era giovane anche l’energia dei vecchi, e chi era appena arrivato sembrava che non potesse mai perdere la propria storia… E sembrava che fossero arrivati tutti il giorno prima, o quella mattina stessa, per onorare la promessa fatta dalla terra che li aveva accolti».
L’incipit del terzo capitolo del nuovo romanzo di Antonio Monda ( Ota Benga, Mondadori) si presta ovviamente a essere discusso, come tutte le annotazioni non scontate. Ci sono stati periodi in cui pareva che la Città Nuova per eccellenza fosse invecchiata: ad esempio negli anni Settanta, quando i giapponesi si erano comprati il Rockfeller Center e pareva dovessero diventare i nuovi padroni del mondo; o alla fine del primo decennio di questo secolo, quando la grande crisi finanziaria aveva fiaccato New York più ancora dell’attacco terroristico di inizio decennio. Ma certo era giovane la New York su cui si apre il romanzo: una Manhattan in cui le guglie neogotiche convivono con la scienza positivista, per la quale un pigmeo è solo un animale da studiare, «che non aveva neanche la comodità di essere impagliato».
Oggi, archiviato non senza conseguenze il disastro iracheno e passata almeno per il momento la grande tempesta di Wall Street, appare evidente che il primato americano — militare, tecnologico e culturale — è destinato a durare, sia pure impegnato nel contenimento della bomba industriale e demografica di Cina e India. All’America in cui è arrivato da «super», una sorta di amministratore di condominio che però deve fare anche la pulizia delle scale, e dove ora è una sorta di ambasciatore del cinema e dell’editoria italiana, Monda sta dedicando un ciclo di romanzi, che alla fine saranno dieci. Ognuno è ambientato in un decennio del secolo scorso. Il primo, L’America non esiste, faceva rivivere gli anni Cinquanta, e cominciava con un incontro di boxe, una vittoria di Rocky Marciano. La casa sulla roccia esplorava gli anni Sessanta. Ota Benga riporta invece ai primi anni del Novecento. I romanzi sono legati da un filo che unisce alcuni personaggi, avi e discendenti, e figure reali della storia americana: anche questo libro si apre con un incontro di boxe, in cui Jack Johnson, (alto un metro e 87, un gigante per l’epoca), destinato a diventare il primo nero campione del mondo dei massimi, demolisce con sorridente ferocia il bianco che ha osato sfidarlo. Si affacciano il miliardario Rockfeller e il teori- co del razzismo e dell’eugenetica Madison Grant, Theodore Roosevelt e Geronimo, che al presidente americano dice: «Grande Capo Bianco, lei è alla guida di una nazione potente, e io rispetto la sua autorità, ma lei sa che anche la più potente delle nazioni non potrà mai avere la forza di un singolo uomo» (Geronimo era uno che aveva dato la caccia per tutta l’Arizona ai banditi messicani che avevano sterminato la sua famiglia: li aveva trovati in un bordello, e aveva strappato il cuore a ognuno di loro di fronte alle prostitute terrorizzate; da qui il soprannome «la tigre umana» con cui l’esibivano a St. Louis).
Anche Ota Benga, che dà il titolo al romanzo, è un personaggio storico. «Il Pigmeo africano. Età 23 anni, altezza 4 piedi e undici pollici. Libero Stato del Congo, Africa Centromeridionale. In mostra ogni pomeriggio per tutto il mese di settembre». Così era scritto sulla sua gabbia, nello zoo del Bronx. Quattro piedi e undici pollici fanno un metro e venticinque centimetri, molti meno di Jack Johnson. Ma il colore della pelle era lo stesso. E se Johnson conobbe più di una volta il carcere, Ota Benga finì in gabbia. Catturato dai mercanti musulmani di schiavi di Zanzibar, liberato dal missionario presbiteriano Samuel Phillips Verner (che prima di convertirsi alla causa degli ultimi era stato un cinico uomo d’affari), di nuovo fatto prigioniero da un’accolita di scienziati e affaristi, che lo espongono allo zoo. Qui Ota Benga trova una protettrice, Arianna Sarris, giovane donna di origini greche, combattuta tra il sentimento di pietà per quel recluso in cui lei vede un uomo, e l’amore per il bellissimo fidanzato Ruud, uno degli organizzatori dell’oscena esibizione.
Ota Benga a New York ha un clamoroso successo. I curiosi accorrono. E gli scienziati vedono in lui «l’anello mancante», la conferma delle teorie evoluzioniste di Darwin. Ma il crudele spettacolo del piccolo africano in gabbia suscita anche violente proteste. Uno scontro culturale che precede quello che seguirà la vittoria di Jack Johnson contro il campione bianco James J. Jeffries, e che insanguinerà le strade d’America.
Sono molti gli spunti che la lettura di Ota Benga può offrire. Alcuni portano in Africa, terra di origine del pigmeo, altri in Europa, da dove viene Arianna. Altri ancora conducono nel profondo dell’animo umano, verso quel sentimento di giustizia che fa preferire «i denti aguzzi e gialli come quelli di una pantera, l’alito forte, il respiro raschiato, l’odore della pelle che non conosceva indumenti» di un uomo minuto e fragile, a un uomo che non era mai stato così bello come il mattino in cui Arianna l’aveva lasciato, all’ora della prima colazione. Ma un romanzo non lo si racconta; lo si legge. E forse questo è finora il romanzo più riuscito di Antonio Monda.
Protagonista Pigmeo africano di 23 anni, alto 4 piedi e 11 pollici, divenne una contestata attrazione
Il libro Antonio Monda, «Ota Benga», Mondadori, pagine 156, 18