Corriere della Sera

MARCHIO DI SCENA

I 60 ANNI DELLO STABILE DI TORINO DA PASOLINI E RONCONI A MARTONE UN DESTINO DA TEATRO DI RICERCA

- di Maurizio Porro

L’anniversar­io Il debutto fu con «Gli innamorati» di Carlo Goldoni ma presto si decise di puntare su testi e allestimen­ti anticonven­zionali. Ha il record italiano di messe in scena di Bertolt Brecht. Che torna ancora una volta con «Vita di Galileo»

Il 3 novembre 1955 al Gobetti debutta gli Innamorati di Goldoni (e sospiro finale di De Musset), con tutta la Torino bene in sala a goder sorprese e sorpresine d’amore: l’ente nasce da decisione comunale il 28 maggio, è il terzo Stabile italiano, dirige Nico Pepe, storico Pantalone in Arlecchino.

Si chiamò Piccolo Teatro della città di Torino, seguendo Milano, ma nel ‘57 divenne Stabile di Torino, terzo organismo pubblico dopo quello di Grassi-Strehler e Chiesa-Squarzina a Genova: teatro d’arte per tutti e per tutti i gusti, studenti e lavoratori benvenuti, obbligator­io ma anche no l’abito scuro, via i tre atti, viva i due tempi.

Oggi è uno dei 7 teatri d’interesse nazionale, compie 60 anni ed ha annunciato la stagione ricca, con due grandi testi che furono strehleria­ni, la Vita di Galileo del finalmente ben tornato Brecht, diretto da Lavia e La morte di Danton di Buchner con protagonis­ti in rima Pierobon e Battiston, e molte altre proposte. Contraddis­tinguono infatti la storia dello Stabile di Torino, con punte ronconiane di diamante, l’apertura di nuovi spazi (Fonderie Limoni, il Carignano fu concesso nel ’77, nel 2009 restaurato) e la varietà delle sfide: se primo successo è Liolà di Pirandello, arrivano poi Beckett e Ionesco a seminar dubbi e il Riccardo III con Gassmann diretto da Ronconi con statue lignee di Ceroli. Non c’è a Torino un padre padrone come a Milano Strehler poi Ronconi, sui cui nomi si aprono meraviglio­si attimi fuggenti; ci sono talenti e stili alternati, scavi nel passato e salti nel futuro, tradizione di dialetti e raffinate parole austro ungariche, probabilit­à ed imprevisti di sfacciatag­gini intellettu­ali.

Spesso con una vocazione innovativa e sperimenta­le, vedi le direzioni di Ugo Gregoretti (1985-89) che recuperò il piemontese Monssu Travet e del critico Guido Davico Bonino (94-97). Quello di Torino non è mai stato un teatro di tradizione che vive sugli allori, ma di ricerca, che ha allestito storici spettacoli di rottura mettendo a dura prova le abbonate della domenica che scartano le caramelle. Ha scoperto e riscoperto classici pop come Ruzante, merito dell’oggi 90enne Gianfranco De Bosio (1957-68), che portò i «torinesi» all’estero e cui si deve un Brecht sfuggito da via Rovello, Arturo Ui con Franco Parenti. Nel ’68, quando se no?, svolta con tre direttori: l’immaginazi­one al potere spinge il Pasolini di Orgia mentre Kounellis rende scenografi­ca l’arte povera. Dopo la breve puntata di Enriquez nel 71-72, la palla passa ad Aldo Trionfo (72-76) con memorabili­a come Peer Gynt di Ibsen con Pani, il Gesù di Dreyer con cui si converte il geniale Branciarol­i, un altro Brecht d’annata, Puntila e il suo servo Matti. È lo stabile con più Bertolt in locandina; Trionfo chiude in gloria con Faust-Marlowe-Burlesque sfida indimentic­abile tra Carmelo Bene e Branciarol­i . Il dado era tratto e Mario Missi- roli (1976-84, direttore più longevo) non si tira indietro: I Giganti di Pirandello, il Vania di Cecov, la gran Trilogia goldoniana, che ricorre ciclicamen­te a Torino; ma è Verso Damasco di Strindberg, il vero evento, mentre scrittura come attore Copi in Les Bonnes di Genet, ancora per poco scandaloso.

Dopo Gregoretti che mescola le carte e tira fuori dal cilindro un rinato Walter Chiari nel Critico, dal Fabbricone arriva Ronconi (1989-94) che fonda a Torino la scuola. E lavora come solo lui sapeva: sfida i versi della Mirra di Alfieri, osa Botho Strauss, vince alla grande su testi impossibil­i e lunghezze da piaghe di decubito con L’Uomo difficile di Hofmannsth­al, Strano interludio di O’Neill (che Manfredi racconta alla Sandrelli in C’eravamo tanto amati), L’affare Makropulos con una grande Melato (e al Regio con la Kabaivansk­a), tre Pasolini. E l’evento al Lingotto degli Ultimi giorni dell’umanità di Kraus, in una dimensione spazio temporale gestita dal regista in fuga da sicurezze teatrali: un capolavoro, prologo di Infinities. Ronconi sfiderà se stesso con il ciclo Progetto Domani per le Olimpiadi del 2006: un tour de force disumano e si ricorda bellissimo Il silenzio dei comunisti.

Lavia, con Orsini uno dei suoi attori di punta, gli succede (1997-2000) e mette in scena le crisi coniugali di Bergman, seguito da Massimo Castri (20002002) e Walter Le Moli (20022007). Fino a Mario Martone che apre la stagione «trasversal­e» dove i media si incrociano: lui è anche un grande uomo di cinema ( Il giovane favoloso) ea Torino punta non scolastica­mente sulle Operette morali di Leopardi e poi sulla Carmen, scatenando Iaia Forte.

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Il primo allestimen­to di «Serata a Colono», di Elsa Morante, regia di Mario Martone, Torino, Teatro Carignano, 15 gennaio 2013. Carlo Cecchi (Edipo), Antonia Truppa (Antigone), Angelica Ippolito (Suora). (
foto: Mario Spada) Mitologia Il primo allestimen­to di «Serata a Colono», di Elsa Morante, regia di Mario Martone, Torino, Teatro Carignano, 15 gennaio 2013. Carlo Cecchi (Edipo), Antonia Truppa (Antigone), Angelica Ippolito (Suora). (

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