Corriere della Sera

Il mistero del boss sull’auto pirata

La pista degli investigat­ori: viaggiava assieme ai ragazzi rom, perciò tutte le impronte sono state cancellate «Assassini nascosti in città». La macchina era intestata a un uomo che risulta proprietar­io di altre 67 vetture

- Di Rinaldo Frignani

Assenza di impronte digitali sul volante. Difficile pensare che sulla Lybra che ha travolto e ucciso la colf filippina ci fossero ragazzini in fuga dall’alt della polizia. Si rafforza l’ipotesi di un boss a bordo.

Cinque versioni differenti le ha date Maddalena. Altre tre il suocero Batho. E dalla tragica fine di Corazon Peres Abordo non è passata nemmeno una settimana.

Un intreccio di dichiarazi­oni e ritrattazi­oni, di nomi che compaiono sui verbali della polizia. Bugie e mezze verità che fino a oggi non hanno portato alla cattura dei due pirati della strada che hanno ucciso la colf filippina in via Mattia Battistini, a Primavalle, e ferito otto persone che si trovavano con lei alla fermata dell’autobus davanti alla stazione della metropolit­ana. Ma gli investigat­ori della Squadra mobile sanno chi sono quei due fin dall’inizio. E non sono certo quelli delle false foto segnaletic­he comparse sui social network con tanto di sfilza di commenti razzisti e istigazion­e a delinquere al seguito.

Sanno che sulla Lancia Lybra grigia, intestata da soli tre giorni a un prestanome napoletano già proprietar­io di 67 vetture acquisite da un «collega» calabrese che ne ha 17, c’erano loro insieme con Maddalena. E sanno anche che Batho è inattendib­ile, almeno fino a questo momento: non guidava lui (come aveva detto poche ore dopo l’incidente autoaccusa­ndosi della tragedia), né si trovava seduto accanto al figlio sedicenne Antony (come ha riferito tre giorni fa in un secondo interrogat­orio). Antony è uno dei latitanti e, per ora, il sospettato numero uno per l’omicidio di Corie Peres Abordo. Per la polizia nessuno dei tre uomini è comunque indagato.

L’unica in carcere è sempre la moglie diciassett­enne di Antony, rinchiusa a Casal del Marmo con il figliolett­o di appena dieci mesi. È accusata di concorso in omicidio volontario, ma secondo il suo legale Carola Gugliotta si tratta soltanto di un fatto tecnico, perché lei in realtà si trovava sui sedili posteriori della Lybra e non avrebbe alcuna responsabi­lità in quello che è successo. Tranne forse quella di aver cambiato versione più volte, una strategia decisa da sola perché non avrebbe avuto il tempo materiale per mettersi d’accordo con gli altri sulla Lybra prima di essere catturata a Torrevecch­ia.

«Prima gli altri due rom si presentano, prima si chiarisce la posizione della ragazza che è sconvolta», precisa il legale della giovane. Ma sta proprio qui la difficoltà di risolvere questo caso che all’apparenza — come spesso accade per gli incidenti provocati dai pirati della strada — poteva anche sembrare semplice. Non è così.

Anzi, l’omicidio di Corazon Peres Abordo ha riaperto per gli investigat­ori una finestra su quanto sia complicato immergersi nella realtà dei campi nomadi, quella criminale. Tanto che in Questura sono sfilati in questi giorni anche sospetti fiancheggi­atori dei ricercati.

Con il passare delle ore l’ipotesi che Antony e il suo complice — un giovane boss del campo di via Cesare Lombroso, sempre a Torrevecch­ia (dove non si esclude la Lancia fosse diretta per trovare rifugio dopo aver ucciso la filippina), insediamen­to finito più volte al centro delle cronache per risse e rapine — siano riusciti a fuggire dall’Italia ha perso consistenz­a. «Sono qui, sul nostro territorio. Difficile pensare che siano andati via», confermano gli investigat­ori guidati dal capo della Mobile Luigi Silipo. Infatti non hanno inviato alcuna segnalazio­ne all’Interpol convinti che gli assassini si nascondono sicurament­e nella Capitale.

La polizia conosce i loro nomi, i loro contatti. Tutti. E sta con il fiato sul collo dei parenti. Non li molla.

Il sospetto sempre più concreto è che dalla presunta messinscen­a per far passare Batho al volante dell’auto killer, ci sia adesso il massimo sforzo per coprire il quarto personaggi­o coinvolto in questa drammatica vicenda. Il boss, il pregiudica­to amico — forse anche cugino — del sedicenne ricercato. Tutto un altro spessore rispetto a ragazzino, che ha piccoli precedenti per furto. E così si spieghereb­be l’utilizzo di un’auto «pulita» — addirittur­a con due teste di legno italiane come garanzia —, forse pronta per essere usata in qualche rapina, e comunque già vista dai vigili urbani parcheggia­ta nel maxi campo nomadi di via di Salone, al Collatino, altro scenario degli affari sporchi dei clan.

Così avrebbe un senso anche l’assenza totale di impronte digitali utili sul volante della Lybra, come se i pirati ci abbiano passato una pezza prima di sparire. Roba da profession­isti, non da ragazzini che fuggono all’alt della volante perché senza patente o senza assicurazi­one. Gente che non ha problemi a trasformar­si in un fantasma in una città grande come Roma.

Le indagini La diciassett­enne arrestata ha cambiato versione cinque volte sull’accaduto

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