UN ANNO NELLE MANI DELL’ISIS TERRORE E SOSPETTI A MOSUL
Chiamarlo « grande fratello islamico» è ancora poco. A un anno dalla presa di Mosul da parte dei jihadisti dell’Isis, un regime assoluto — fondato sulla formula mista del puro terrore, coercizione religiosa, violenza arbitraria e mobilitazione permanente — ha assunto saldamente il controllo. Non sappiamo quanta parte della popolazione rimasta concordi con l’ideologia e la prassi del Califfato eletto a sistema, non solo di potere politico, ma anche di dominio e indottrinamento delle nuove generazioni. Non tutti i sunniti abbracciano il credo nichilista di questa versione riveduta dell’Islam wahabita alimentato dai gruppi di volontari arrivati dall’estero. Tutt’altro. Però anche gli oppositori, e noi abbiamo tutte le prove che ve ne siano, come possono manifestarlo?
Le testimonianze che arrivano da questa, che sino a dodici mesi fa era considerata la città più importante dell’Iraq settentrionale con quasi due milioni di abitanti articolati in vari gruppi minoritari, raccontano di «pattuglie della moralità » pronte a intervenire spietate per imporre la loro lettura distorta e totalitaria del Corano. Le donne sono costrette a coprirsi completamente in nero, compresi i guanti. Le proprietà dei circa 60.000 cristiani sono sequestrate, i loro libri bruciati, le chiese dissacrate, utilizzate come magazzini.
I ladri hanno le mani tagliate d’ufficio. Le adultere sono lapidate dopo processo sommario. Gli adulteri e gli omosessuali gettati dai tetti dei palazzi. Le decapitazioni e fustigazioni vengono utilizzate come monito pubblico per «educare» i civili. Le yazide sono ancora vendute al mercato delle schiave. Non esiste alcun giornalismo indipendente. La strategia dei guardiani della «giusta fede» è stata organizzare un oliato apparato della propaganda con video e messaggi diffusi non stop sui social media.
Con il terrore trionfano la delazione, la cultura del sospetto. E poco o nulla lascia prevedere cambiamenti nel prossimo futuro.