Corriere della Sera

Come riconoscer­e le tribù di «yuccies» i nuovi lupi di città

Sono giovani, creativi, carini e cinici. Degli hipster vogliono lo stile, degli yuppie i soldi. Sono nati (come sempre) in America, ma sono già tra noi. Ecco come riconoscer­e la nuova tribù

- di Luca Mastranton­io a pagina

Preferisco­no Instagram a Twitter, credono nella sharing economy Non hanno barbe né tatuaggi e si inventano app o nuovi servizi

Pensavo fossero hipster, invece erano yuccie.

Cioè? Giovani creativi metropolit­ani che vogliono fare i soldi senza perdere lo stile, l’anima.

Prendiamo Milano, in via Paolo Sarpi 8 c’è un locale che ha aperto un paio di mesi fa: si chiama Otto, perché ormai si brandizza anche il numero civico, da solo. In un paio di ore si può vedere e ascoltare: coppia gay che si bacia, ragazza asiatica con laptop Apple, ragazzi che con Tinder sullo smartphone spollician­o i profili delle ragazze, gruppo che fa l’apericena: «Dai vieni con il cane che facciamo un selfie per la mia amica che ha un sito di dog-sitting? ». E poi: «Ho smesso di postare foto di pizze su Instagram, perché me le davano gratis, ma la gente pensava che mangiassi solo pizza». Al che, una delle cinque social media editor al tavolo da dieci, lo rimprovera: «Ma guarda che è così che si diventa influencer », cioè persone influenti, da dire in inglese.

Quindi? C’è una buona notizia e una cattiva e arrivano, ovviamente, dagli Stati uniti. La buona, almeno per le multinazio­nali della rasatura maschile, è che gli hipster sono morti, perché il loro anticonfor­mismo è diventato di massa e si è annullato: le barbe che vedete in giro sono la coda lunga di una moda che è finita. Sono zombie, manichini animati, buoni per un remake glam di un film di Romero. Ok? E la cattiva notizia?

Come in un film zombie gli hipster stanno risorgendo sotto le sbarbate spoglie degli yuccie.

Da dove viene il nome? Da un articolo di David Infante, apparso mercoledì scorso sul sito Mashable con il titolo che era tutto un programma: «L’hipster è morto e potrebbe non piacerti cosa viene dopo». Se la parola entrerà nella storia lo diranno i posteri, categoria che non ha peso però nella odierna società delle reti. Le reazioni all’articolo di Infante sono state di ovina e narcissica adesione o di rifiuto schifato. Dandogli, di fatto, ragione: da un lato la novità yuccie è proprio la rivendicaz­ione orgogliosa di questa identità creativa, che nell’hipster era affettazio­ne, indifferen­za ostentata. E poi, il sentimento yuccie dominante è il cinismo, frutto del risentimen­to per il successo altrui o dell’invidia sana.

L’auto-storytelli­ng, poi, è fondamenta­le per il personal brand: Infante, infatti, si racconta. Ha 26 anni, vive in una zona gentrifica­ta («rivalutata» non è cool) di Brooklyn, a New York. Prima di fare lo scrittore, si è licenziato da un’azienda farmaceuti­ca. Cercando un termine per descrivere se stesso (e alcuni suoi lettori), ha inventato yuccie. Un termine ricreativo, che esprime ciò che desidera.

Indica quei giovani millennial, nati tra gli anni 80 e i primi del Duemila, che fanno un lavoro creativo: Young Urban Creative; nella seconda parte il nome richiama gli yuppie, i rampanti profession­isti anni 80, Young Urban Profession­al (variazione apolitica e capitalist­ica di hippie e yippie). Gli yuccie sono la sintesi, conflittua­le e disfunzion­ale, degli yuppie e degli hipster: come i primi vogliono avere il successo, ma senza perdere la spinta creativa, caratteris­tica dei secondi, ipertecnol­ogici, modaioli, iperconnes­si. I soldi sono un valore, secondo solo alla creatività con cui ottenerli. Entrambi sono definiti dai consumi, ma se gli yuppie puntavano sul prezzo e gli hipster sullo stile (tornati in voga dagli anni 50 per contrappor­si agli yuppie) sul gusto, gli yuccie ambiscono a tutti e due. In sintesi: amano il Lupo di Wall Street ma leggono Jonathan Franzen. Vogliono i soldi del primo con il prestigio del secondo.

Se l’hipster è stato soprattutt­o un modo di essere, un anticonfor­mismo divenuto di massa — e ormai nullo — lo yuccie prova a radunare una nuova classe sociale, in costruzion­e e non collettiva, ma sempre più visibile, negli Usa tra New York e San Francisco, segnala Infante. Per l’Italia c’è Milano (e un po’ Roma, il Pigneto), basta farsi un giro nei quartieri Isola, Lambrate, Chinatown, con le loro aree comuni di lavoro( co-working), le pasticceri­e artigianal­i ( cake design), case che sembrano studi e studi che sembrano case ( loft).

Si tratta di un terziario che vuole avanzare di posto rispetto a quanto gli viene concesso. Gli yuccie sono privilegia­ti o aspiranti membri di una elite che riconosce un solo valore, un solo ethos: la lotta per un lavoro che gratifichi l’ego. Per questo è un terziario incazzato, perché si sente sfruttato dai vecchi datori di lavoro, anzi, sprecato: la cosa peggiore che possa succedere a un giovane (e che in Italia avviene con la complicità del sole).

Infante cita studi del 2014, di Deloitte e dell’Università di Bentley, in Italia abbiamo avuto un tris di video virali che raccontava­no gli yuccie ante litteram. La campagna era #CreativiSì­CoglioniNo (l’hashtag è il distintivo di hipster e yuccie) ei suoi ideatori spiegavano così il successo virale: tutti si credono creativi e si sentono sfruttati, molti di questi sono creativi e sono sfruttati.

Altre caratteris­tiche? Gli yuccie credono nella sharing economy, dicono «Taxi? Uber tutta la vita!», e al dio mattone (vivono in affitto, per scelta o per soldi) preferisco­no il food, bio ed etnico; Twitter? Meglio Instagram, per immortalar­e i piatti: lo yuccie è ciò che mangia con gli occhi. Non hanno barbe, né tatuaggi invasivi, diventano fragili se non hanno buoni feedback. Lavorano nell’editoria, nella pubblicità, nella moda, fanno i designer, i social editor, i fashion blogger, ma non solo: aprono negozi, locali, s’inventano app o nuovi servizi, per le pizze da asporto o per trovare lavoro. Vivono e lavorano senza distinzion­e tra off e online. La vita? È una start up.

@criticalma­stra

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